lunedì 8 giugno 2020

Stavo cor Libanese! - Una riflessione sul ruolo del linguaggio e dell'etica del ghenos nella rappresentazione cinematografica del mondo della malavita


"Io stavo cor Libanese!"
Così si apre Romanzo Criminale: La Serie. Con un vecchio macilento, quasi zoppo, che con straordinaria ferocia, ed inquietante professionalità, massacra tre teppisti adolescenti che lo avevano pestato poco prima.
Il vecchio, ancora sporco di sangue, urla alle finestre cieche che lo circondano, evocando il nome, ormai impolverato, ma ancora terribile, dell' "ottavo re de Roma" . Lo spettatore rimane disorientato, sorpreso, ma soprattutto convinto che questo Libanese sia uno con cui è meglio non avere a che fare, uno di cui avere paura, uno a cui "portare rispetto". Di questa serie mi sono innamorato. Eppure, mentre divoravo a velocità proibitiva gli episodi, mi accorgevo di un fenomeno inquietante, che diveniva in me sempre più evidente: non stavo più dalla parte dei buoni, anzi, li vedevo con ostilità. E più i cattivi erano cattivi, più mi piacevano. La polizia, i giudici, i pentiti, i morti, scomparivano davanti al Libanese, al Freddo e al Dandi. Più episodi consumavo, più entravo nella logica, e dunque nel linguaggio e nella mentalità, di un gruppo brutale e malavitoso. Questo processo è comune ad ogni grande storia che abbia come oggetto della narrazione e protagonista il mondo criminale. Dal "Padrino", passando per "C'era una volta in America", "Scarface" e "Goodfellas", fino ad arrivare a "Gomorra" e a "Narcos", io, come altri milioni di spettatori, mi sono ritrovato a parteggiare per il versante sbagliato. I motivi di questa singolare reazione sono molteplici, ma ne possono essere delineati fondamentalmente due:
I) Il linguaggio
Ogni storia di malavita segue un gruppo marginalizzato, estraneo alla società civile "rispettabile". Nel caso americano si parla sempre di comunità di immigrati di una particolare nazionalità. Perciò l'accento di Tony Montana, la voce rauca di Don Corleone, ed i loro rispettivi vocabolari integrati da espressioni cubane nel primo caso ed italiane nel secondo, plasmano il personaggio e lo spettatore, costringendo quest'ultimo ad adattarsi all'idioma ed allo sprachspiel utilizzati dal protagonista. Un processo simile avviene nelle storie ambientate in Italia attraverso i dialetti regionali. Il risultato, comunque, è una semi-inconsapevole immersione nella forma mentis dei criminali. 
L'esempio più lampante e visionario di questo processo lo abbiamo nel Nadsat di "Arancia Meccanica". 
II) L'etica del γένος (ghènos) e dell' ἑταιρεία (hetairèia)
In Romanzo Criminale, come nelle altre opere già citate, lo spettatore è esposto ad una diversa etica, ovvero ad un diverso sistema valoriale, che in un certo senso confonde e mina le convinzioni e le priorità sulle quali si fonda la società moderna, per lo più utilitarista nel campo della morale. Il Libanese definisce ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in base a ciò che è di beneficio o nocumento alla propria famiglia (γένος) o alla comunità dei propri compagni (ταιρεία). Ovviamente queste due categorie spesso si sovrappongono o confliggono tra loro, soprattutto in altri contesti, come quello siciliano o campano,  nei quali i legami di sangue acquistano maggiore importanza. Ciononostante, i due termini sono in linea di massima assimilabili in un contesto malavitoso, che spesso include nel gruppo della "famiglia" anche individui non imparentati. Rimane però sempre forte la dialettica tra l'etica del γένος/ταιρεία e l'etica dello stato, che Hegel aveva già magistralmente astratto dalla tragedia sofoclea dell'Antigone. E non è in effetti illegittimo paragonare la tragedia greca e la tragedia "dei gangster" odierna, sia per una contiguità liminale di temi (vendetta, famiglia, punizione, delitto) sia per una somiglianza funzionale, da riscontrarsi nella comune finalità catartica; d'altronde lo stesso Arthur Miller, nel suo "Uno sguardo dal ponte" aveva costruito un deciso parallelismo tra le comunità dell'Italia meridionale trapiantate in America e i loro antenati della Magna Grecia.

Alcuni potrebbero sostenere una fondamentale negatività di tale fenomeno di immedesimazione, rifacendosi più o meno consapevolmente, più spesso meno, alla concezione platonica di un'arte che incita alle passioni, anche se bestiali, invece di contenerle. Ed effettivamente talvolta è vero, alcuni possono non rendersi conto del male dietro l'apparente eroicità di vari personaggi criminali. Credo però, aristotelicamente, che libri, film e serie televisive come Romanzo Criminale siano utili valvole di sfogo, innocue vie di fuga dalle regole del vivere civile, avvertimenti delle conseguenze del soccombere all'arcaica spietatezza dell'ἦϑος (èthos) dei legami di sangue, ed in tal senso, forze purificatrici. Inoltre la rappresentazione del mondo dei gangster nell'arte, proprio per questa peculiare arcaicità e lontananza dalle costrizioni della civiltà giuridica, è stata capace di restituirci alcune tra le più autentiche, per quanto distorte, storie d'amicizia raccontate negli ultimi decenni. Noodles e Max, di "C'era una volta in America", sono forse l'esempio migliore. 

Finisco col ringraziare un mio amico, che mi aveva consigliato prima che venisse questo tempo strano e doloroso, prima delle mascherine e della pioggia, di vedere Romanzo Criminale, e che mi ha dato l'idea per questo articolo durante una conversazione digitale su quale fosse il nostro personaggio preferito. Il mio era Libano. Il suo Dandi. 
"E mo che hai sonato, canta"

Tancredi Bendicenti

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