Non sono qui per
raccontarti una storia. Non sono qui per scrivere due righe che leggerai di
sfuggita. Non continuare a leggere se non vuoi immedesimarti in una realtà
diversa. Ora chiudi gli occhi. Lo senti questo silenzio? Si? Bene, ora respira.
Lo percepisci il tuo respiro? La vita che pervade il tuo corpo?
Bene, perché in
un mondo fatto di indifferenza mista a male la consapevolezza di essere vivi è
tutto ciò che ci resta.
“Quando potevo chiamare
la mia famiglia lo dovevo fare davanti a loro. Nel frattempo mi torturavano e
se non mi avessero mandato altri soldi mi avrebbero ucciso”. Giugno 2017,
Victory, nigeriano di 22 anni.
Torturati, appesi a testa
in giù e poi percossi con un tubo di gomma. Oppure collegati alla corrente
elettrica con dei cavi, magari con un parente accanto costretto a guardare e la
famiglia al telefono. Oppure colmi di ustioni perché troppe volte gli viene
gettata addosso l’acqua bollente, o direttamente la pentola con l’acqua dentro.
Oppure lapidati. Donne e bambine vengono ripetutamente abusate. Sono queste le
condizioni in cui si ritrovano a vivere (se questo si può considerare vivere)
coloro che raggiungono le coste della Libia nella speranza di arrivare, un
giorno, in Europa. Non solo, anche tutti coloro che vengono rintracciati sui
barconi in mare vengono riportati in questi centri dalla milizia libica. Sono veri
e propri campi di concentramento e sono circa 26, di cui 20 quelli riconosciuti
dalle Nazioni Unite. Nella maggior parte dei casi sono gestiti da militanti in
stretto contatto con trafficanti di uomini e criminali. Mentre i detenuti in
Libia continuano ad essere decine di migliaia, gli sbarchi di migranti in
Italia diminuiscono: dagli oltre
100 mila arrivati in Italia nel 2017, si è passati ai quasi 10.000 del 2019
secondo Oxfam. Un risultato a cui si è giunti grazie agli accordi Italia-Libia
promossi prima dal governo Gentiloni e rinnovati dal ministro degli esteri Di
Maio nell’autunno del 2019. I finanziamenti dell’Italia alla Libia sono
cresciuti anno dopo anno: oltre 56 milioni di euro sono stati spesi nel 2019
per finanziare la formazione del personale locale nei centri di detenzione
ufficiali e la fornitura di mezzi terrestri e navali alla Guardia costiera (che
di fatto è costituita da militanti) e alle autorità libiche.
C’è da chiedersi, dunque, ma ne vale davvero la pena? Davvero è
necessario finanziare la morte per la “tranquillità” di un paese? Sono belli i
numeri che mostrano che gli sbarchi sono in calo, alle persone piacciono e le
persone cosa sono se non voti. Una vita, che cos’è se non un numero.
I lager non sono un elemento caratteristico di un passato ormai remoto e
di esempi attuali ce ne sono altri oltre alla Libia. Ce lo racconta per esempio
la testimonianza del nordcoreano Shin Dong-hyuk, fuggito a 22 anni dal Campo 14
dove era nato: «Nessuno
mi aveva mai spiegato perché stessi là dentro, pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi
e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello
dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire» (da un’intervista
del Corriere della sera). Solo l’arrivo di un nuovo detenuto dal “mondo di
fuori” gli ha aperto gli occhi. In Corea del Nord esiste
una legge che prevede la “Punizione per tre generazioni”, istituita nel 1972 dal Grande leader e Presidente Eterno Kim
Il Sung. Tutta la famiglia di Shin si trovava nel Campo 14 perché due zii erano
fuggiti a Seul ai tempi della Guerra di Corea.
Altro caso altrettanto significativo è quello degli “istituti di formazione” creati per “avviare al
lavoro” i membri dell'etnia musulmana Uiguri nella provincia Xinjiang in Cina. Il video su TikTok di un’adolescente americana
che denunciava questi luoghi come campi di concentramento, in seguito alla
pubblicazione di documenti segreti, è diventato virale sui social.
In conclusione, non posso far altro che dire: il 27 gennaio non dovrebbe
essere solo il giorno della memoria di atrocità commesse in passato. Non
dovrebbe essere solo il giorno in cui si ricorda cosa è stato capace di fare
l’uomo, ma cosa è capace di fare oggi. Perché i ricordi, come le parole, sono
superflui se privi di significato.
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