"Igor svegliati o farai tardi!" Era la mamma.
Igor non voleva svegliarsi, ieri era tornato tardi dalla miniera, secondo lui lavora troppo per essere un ragazzo di 16 anni.
"Quando avevo 8 anni andavo a scuola e avevo il tempo di giocare!" diceva ogni giorno a Vadim, un ragazzo di 18 anni originario di Mosca che ora, come Igor, spendeva tutte le sue giornate a scavare sempre più in fondo a cercare qualcosa che nemmeno sapevano cosa fosse.
"Quando avevo 8 anni andavo a scuola e avevo il tempo di giocare!" diceva ogni giorno a Vadim, un ragazzo di 18 anni originario di Mosca che ora, come Igor, spendeva tutte le sue giornate a scavare sempre più in fondo a cercare qualcosa che nemmeno sapevano cosa fosse.
I suoi passi erano lenti e incerti, la mattina presto non era facile mantenere l’equilibrio.
Si diresse verso il bagno, non era tanto distante dalla stanza dove dormivano lui e i suoi genitori. Accese le luci, il bagno non era male per quanto piccola e malandata era la casa, si avvicinò allo specchio e tre grandi numeri apparvero vicino al lavandino: 5:37. Finito le sue cose se ne andò verso la cucina dove lo avrebbe aspettato la solita colazione di cibi sintetici che l’esercito forniva alle famiglie ogni settimana, odiava il sapore finto dei cereali, rimpiangeva i biscotti che la nonna gli dava tutti i pomeriggi nel freddo inverno di Kursk, ora che era lontano da casa l’oggetto che gli ricordava la sua amata città era la maglia della sua squadra del cuore, il F. C. Kursk che indossava quando con il padre andava a vedere le partite allo stadio. I genitori di Igor erano giovani, la mamma lo aveva partorito quando aveva solo 23 anni mentre il papà era due anni più grande di lei, anche se avevano sempre lavorato in vita loro quando cadde il mondo si dovettero subito adattare a queste nuove e durissime condizioni di vita. Tra una cucchiaiata e un’altra Igor fini i suoi cereali e senza che la madre glielo ricordasse si alzò e rivolse i suoi passi verso la camera da letto.
"Dormitorio" così l’esercito chiamava la camera da letto durante gli annunci che uscivano dalla radio. La mamma la teneva su un tavolino vicino ai letti ed Igor ogni volta che sentiva quegli annunci capiva una volta di più come si fosse tolta l’anima da ogni loro gesto quotidiano.
Igor prese uno scarpone, era come lo scarpone del generale che venne a chiamare la sua famiglia quel giorno, quel maledetto giorno. Ormai l’esercito forniva solo scarponi, le risorse scarseggiavano e si tagliarono tutti gli oggetti che dicevano essere di troppo, anche le scarpe da ginnastica, quelle che Igor preferiva di più, le aveva viste l’ultima volta indosso ad un signore che insieme a lui, alla sua famiglia e ad altre migliaia di persone, era in fila per entrare dentro delle camionette che avrebbero portato tutti alla stazione spaziale più vicina. Per scappare da quello, che era un mondo destinato ad autodistruggersi.
"Titano, la nuova frontiera dell’umanità!" così diceva la livrea della navicella su cui partirono. Quel maledetto giorno, il soldato ispezionava la sua famiglia e fermò sua nonna, "Non rientra nei limiti di età, non può partire o sarà solo un peso" Igor vide il gelo negli occhi del militare, lungo il viaggio non pensò ad altro che a sua nonna chi avrebbe dato giustizia ad un gesto così atroce?
Igor indossò i vestiti che l’esercito gli aveva dato dal suo primo giorno in miniera, esattamente quattro anni fa. Era strano che ancora gli stessero, quando era arrivato era un ragazzo in carne ma la vita su Titano e la carenza di cibo lo avevano portato a somigliare più a un ombra che a una persona.
Igor si mise lo zaino sulle spalle, andò in cucina, dove era la porta che portava ai tunnel sotterranei, da lì sarebbe arrivato in miniera, un altro giorno da vivere come il precedente e uguale al domani.
Prima di aprire la porta Igor si girò per salutare la madre, era seduta vicino al tavolo dove mangiavano e stava fissando il nulla, non era più la sua mamma, a casa aveva sempre il sorriso stampato sul viso a fare qualcosa, ma da quando erano arrivati anche lei aveva perso la sua umanità.
Nessuno gli aveva mai spiegato perché da un giorno all'altro aveva dovuto abbandonare la sua terra, come del resto neanche ai suoi compagni, ma aveva capito che oltre alla terra tutti avevano perso anche la loro umanità.
Giuseppe Cirimele
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