venerdì 13 marzo 2020

Aquiloni - Decameron 2.0; Novella VIII




Si grattò via la crosticina dalla mano e si fermò a guardare. Non sapeva cosa ci fosse di bello nel guardare una ferita sanguinare: il sangue rosso vivo che sgorgava da un buco sulla mano; eppure lo fece lo stesso.
Il sangue iniziò una corsa lungo il suo braccio, tingendo di rosso la manica della camicia. Aveva un fazzoletto in tasca, ma non lo prese: non le importava di macchiarsi, non le importava di sanguinare e non le importava di provare dolore. Se ci pensava bene, non le importava di nulla: e ci pensò.
 Si guardò intorno: non era ancora arrivato. Non che si aspettasse altro, onestamente non sapeva neanche che aspettarsi da una persona del genere. Era rimasta là sotto a quel muretto a morire di freddo per ore. E lui non era arrivato. Non sarebbe mai arrivato.
Le sembrava stupido sprecarci tempo, e forse lo era; ma lei non viveva di forse, viveva di sé. E lo avrebbe aspettato, così, se avesse deciso di fare la sua comparsa, lei sarebbe stata lì. Non la fece. Eppure non era delusa. Aveva sempre fatto così. Lei, non lui. Lui era quello che era e non si può pretendere da un cane che diventi un gatto, così come non si può pretendere che una persona che nasce tonda muoia quadrata.
Era lei il problema: si affezionava alle persone sbagliate, le rincorreva come gli aquiloni d’estate nella speranza di riuscire ad afferrare lo spago prima che il vento li porti troppo in alto. E lui era finito troppo in alto. Aveva raggiunto tutti gli altri, tutti quelli che l’avevano lasciata, prima di quel giorno, ad aspettare al freddo un momento che non sarebbe mai arrivato. Ma a lei non importava, a lei non importava di niente, se ci pensava. E ci pensò.
Tornò a casa a piedi, per far passare il dolore alla schiena che le era venuto a forza di stare seduta ad aspettare, aspettare ancora. Camminava lentamente, quasi volesse dargli un’ultima possibilità, l’ultima possibilità di correrle dietro, di vederla prima che svoltasse l’angolo e di prenderla per un braccio, voltarla e baciarla: annullando tutte quelle ore al freddo. Se, fosse passato.
Non passò, e lei non si girò neanche a controllare, prima di voltare l’angolo. Le piacevano le sorprese, le mani che ti toccano le spalle all’improvviso, un sussurro nell’orecchio, un grido dal fondo della strada, un abbraccio stretto. Non si girò, eppure ci sperava. Continuava a sperarci. Continuava a dargli corda, opportunità. Possibilità di sorprenderla come quella volta che le aveva dato un bacio sulla fronte davanti a tutti, come quando si era offerto di riaccompagnarla a casa, come quando. Viveva più nei ricordi e nelle speranze future che nel presente. Lo sapeva, ma non poteva farsene una colpa. Il fatto è, continuava a ripetersi, che se non te le immagini te le cose, non avrai mai la possibilità di viverle. Lo sapeva che era meglio lasciarle perdere, le speranze. Che è meglio essere sorpresi, che delusi. Eppure non riusciva, non riusciva a fermarsi e lasciare che l’aquilone volasse da solo, senza avere nessuno che lo rincorresse, che lo costringesse ad andarsene.
Così camminava, e rifletteva, mentre il sangue le si seccava sulla pelle, pizzicandola.
Diceva che non le importava. Lo pensava, se ne convinceva. La verità era che le importava più di ogni altra cosa. Non poteva lasciar stare, non poteva lasciar correre anche questo. Si era stufata, questa volta. Si era stufata per davvero. Si dovette fermare, stava correndo e neanche se ne era accorta. Aveva il cuore a mille e non riusciva a tenersi in piedi. Si appoggiò al muro e riprese fiato. Era una brutta sensazione, un’orrenda sensazione. Stava scappando, nella direzione opposta. Stava scappando perché non voleva più avere niente a che fare con quella persona, con quel mostro che, di nuovo, l’aveva lasciata sola. Non era la prima volta che le faceva questo. Non era la prima ed era sicura che non sarebbe stata l’ultima, a meno che non glielo avesse impedito lei. Il fatto è, continuava a ripetersi, che non è il tipo da rispettare gli appuntamenti, le promesse fatte. E non ci voleva più perdere tempo.
Se ci pensava, ancora un po’, si sarebbe accorta che alla fine le importava più di quanto non volesse credere. Le importava per il semplice fatto che era lui. Ma non ci pensò. Riprese a camminare convinta che quell'appuntamento mancato per lei non significasse nulla, che non era altro che uno stupido imprevisto e che, proprio perché non le importava, non le avrebbe fatto male. Si ricordò l’ultima volta che le era davvero importato. Era sul pavimento del bagno a piangere, dall’altro lato del telefono c’era una persona che urlava. Aveva ancora i segni del termosifone bollente sulla schiena.
Il suo problema era che si faceva prendere troppo, che le sue emozioni la travolgevano come il mare in tempesta e che lei non riusciva a respirare.
Aspettò prima di girare l’angolo di casa sua.
Si permise di sperare un’ultima volta. Di permettergli una sorpresa.
Prese un respiro profondo, e riprese a camminare.

Flavia Gatti 

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