La piuma
Un giocatore occasionale
Solenne e paffuto, Romano Tondini comparve
dall’alto delle scale portando una bandiera sulla quale erano poste in croce
una falce ed un martello.
“Camerata, guardate cosa hanno trovato in
casa del Ramenghi!”
Si fece passare la stoffa rossa e macchiata
tra le dita grassocce. Per un attimo il tessuto sembrò impigliarsi nella fede dorata
che portava all’indice destro.
“Ha capito il Ramenghi, al mattino sta zitto e
alla sera se la fa coi bolscevichi… “
Il Camerata era un uomo alto e ossuto, con un
forte accento emiliano. Il naso sembrava piombargli sul labbro. Era vestito
bene, con un pastrano nero e degli occhiali spessi. Guardava il Tondini col
viso chino sulla scrivania, alzando solo le pupille verso le scale, oltre le lenti. Continuava a battere a macchina.
“E cosa scrive lì?”
Romano Tondini era un uomo pingue, basso,
sudaticcio. Il ventre era ingabbiato in un gilet di varie misure troppo piccolo,
i cui bottoni sembravano pronti a scucirsi. I capelli, ormai radi e tinti di un
nero innaturale, erano pettinati accuratamente all’indietro. Il capo spoglio
era coperto da un cappello bianco, di ottima fattura, con una piuma verde, inconfondibile,
in cima. Era senza dubbio vecchio di parecchi anni, ma comunque eccessivamente elegante
per chi, al momento, lo indossava.
“Ordinaria amministrazione”
Il Camerata sembrava infastidito dalla
domanda. Nel rispondere abbassò le pupille. Il Tondini rimase lì fermo, per
trenta secondi, a metà tra le scale e la porta dell’ufficio. Aspettava che gli
fosse chiesto il motivo della sua uscita così inusuale, e la sua altrettanto
inusuale destinazione. Ma non gli fu domandato nulla. E così, con il suo solito
passo altalenante, barcollò verso l’uscita. L’inverno del 44 è stato a Milano
il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo. Per questo Romano Tondini
non sentì la necessità di abbottonarsi il cappotto. Per tre volte poggiò il
piede sull’asfalto. Poi pensò che non era da brave persone tenere il cappotto
aperto. E così lo chiuse, a stento. Aveva ancora in mano la bandiera rossa. Si
era dimenticato di posarla. Pensò allora di usarla come sciarpa. La girò in
modo che non fosse visibile il simbolo. La allungò per stirare le pieghe. Poi
se la annodò intorno al collo. Era troppo stretta. Si sistemò la spilla puntata
sul petto, davanti al cuore. O meglio, credeva fosse il cuore. Non aveva mai
capito se fosse a destra o a sinistra, ogni volta si confondeva.
Quel giorno aveva un compito importante.
Doveva portare una lista al comando tedesco. Dei nomi. Immaginava che fine
avrebbero fatto. Ma preferiva non pensarci.
Stava facendo il suo lavoro. Quei nomi al comando sarebbero arrivati lo
stesso. Non aveva senso rischiare la pelle. Gli dispiaceva soltanto di non essersi
vantato con il Camerata. L’incarico era stato affidato a lui, dal colonnello
Müller in persona. Si, proprio a lui. La avrebbe sbattuta in faccia a sua moglie
quella lista, se avesse potuto. Romano Tondini non è un fallito. Ma non c’era
tempo. Allungò il passo. Aveva un prurito intorno al collo.
Un ragazzo
Sarebbe passato da quel vicolo a breve. Lui
se ne stava lì, seduto sulle scale davanti ad un portone, a scaldarsi le mani
col fiato. Fumò una sigaretta frettolosamente. Gli avevano sempre detto che
prima della guerra il tabacco aveva un altro sapore. Lui non poteva saperlo. Prima
della guerra non aveva mai fumato. Era troppo piccolo. Poi papà non voleva. Gli
mancava. Da quando se lo erano portato via erano cambiate molte cose. Mamma era
convinta che sarebbe tornato. Ma lei non sapeva nulla. Non le erano arrivate le
dicerie sui campi di lavoro. Lui, almeno, aveva fatto in modo che non le
arrivassero. Già conosceva l’ultimo ricordo che avrebbe avuto di suo padre.
Quel cappello bianco, con la piuma, che un soldato tedesco gli aveva strappato
dal capo. Era una piuma rara, quella, portata da uno dei suoi viaggi.
Si infilò la mano nella tasca. Si, la pistola
c’era ancora. Usala solo se necessaria. L’importante era la lista, l’uomo era
solo un tramite, un piccolo funzionario, una mezza tacca. Il compito era
semplice. Tramortire il fascista e prendergli il foglio. Poi scappare. Correre
prima di essere inseguito. Per questo avevano scelto un ragazzo. Non c’era da
uccidere. Solo da correre.
Un giocatore occasionale
Aveva rallentato il passo. In fondo non c’era
fretta. Passò davanti alla birreria che erano soliti frequentare i tedeschi. Un
postribolo un po’ ammodernato, che serviva il miglior luppolo rimasto in città.
Solitamente se ne teneva alla larga. Era un attimo finire nei guai, anche se
avevi la tessera del partito. E poi era meglio stare alla larga dai nazisti. La
guerra sarebbe finita presto o tardi, e non voleva trovarsi dalla parte
perdente. Aveva anche pensato di fare il doppio gioco. Ma no, troppo rischioso.
Lui faceva il suo lavoro, niente più niente meno. Eppure una volta ci era
andato, in birreria. Non ricordava nemmeno perché. Aveva bevuto ed aveva scherzato.
Aveva riso tanto. Il viso gli si era gonfiato ed arrossato. E poi aveva giocato
tutta la notte. E aveva vinto. Questi tedeschi erano bravi con i fucili, ma
scarsi nelle carte. Si era guadagnato qualche lira. Ma, soprattutto, un
cappello. Il cappello che ora indossava. Era la posta di un ragazzo bruno, che
non parlava una parola di italiano. Non aveva moneta. Si era giocato il bottino
di quel giorno. Così il Tondini se ne era uscito ubriaco, col cappello storto
in testa, e il cappotto aperto. Ma poi in birreria non ci era più tornato. Era
un rischio, qualche esaltato avrebbe potuto mettere una bomba. E a Romano
Tondini non piacevano i rischi.
Un ragazzo
L’uomo apparve da dietro l’angolo. Aveva una
strana sciarpa rossa, stonata rispetto al resto del vestiario. Si alzò dallo
scalino sul quale era seduto. Impugnò la pistola per la canna. La nascose nella
tasca destra. Un colpo, non troppo forte, sulla nuca. Bastava che svenisse. Si
coprì il volto meglio che potesse. Gli si avvicinò da dietro, lentamente. Poi
fece uno scatto. Lo colpì col calcio della pistola. Cadde a terra. Respirava.
Sembrava a suo agio nel sonno. Frugò nelle tasche del cappotto. Trovò la lista.
Stava per scappare.
Poi vide la piuma, in cima al cappello bianco,
che l’uomo indossava. Non se ne era accorto prima. Era lei. Non poteva
confonderla con nessun’altra. Di un verde unico. Alcuni ricordi si fanno più
vividi con le tragedie. Aveva ancora la pistola in mano. La girò. Stavolta la
canna era puntata contro il corpo inerte steso sulla strada.
Sparò.
Esplose un unico colpo. Sul collo. Il sangue
macchiò il cappotto, fuggendo, sdegnoso, tra le pieghe del tessuto.
Si chinò a prendere il cappello, corse.
Tancredi Bendicenti
Date: pietre miliari della
storia
Le nostre azioni, piccole o grandi, hanno
sempre un impatto sulla storia. In alcuni momenti della storia esse sono più
visibili che in altri momenti.
Il 25 aprile 1945, i partigiani che presero
parte all'insurrezione sapevano di far parte di una grande azione ma nessuno di
loro sapeva che avrebbe portato alla liberazione dell’Italia e alla caduta del
fascismo.
In Polonia una data con una simile simbologia
rivoluzionaria è il 4 giugno 1989, il giorno delle elezioni parlamentari alle
quali per la prima volta presero parte candidati indipendenti dal partito
comunista. Non sembrava ma ciò segnalò l’inizio della fine del comunismo in
Polonia, poi nell'Europa dell’est e in seguito produsse la fine della guerra
fredda e la caduta del muro di Berlino.
Raymond Aron, un politologo francese, riassume
questo concetto in una celeberrima frase: “Gli uomini fanno la storia, ma non
sanno la storia che fanno.”
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