Le scarpe tirate a lucido disegnano centinaia di figure mutevoli per terra, saltando inconsapevoli da un punto bianco all'altro, spasmodiche nella loro sete di incontro, timorose nella loro reticenza alla vicinanza.
Il caldo non è ancora arrivato ed il sole si nasconde tra le foglie secche d'estate. Nel cortile è tutto un vociare attutito dalla garza, un indistinto conoscersi mediato dal tessuto pesante delle maschere. Spesso non ci si capisce o non ci si sente, talvolta non ci si riconosce nei soli occhi. I più piccoli, già di per loro disorientati, si perdono nella novità del liceo, assorbiti nel vortice della fine dell'infanzia. Eccitazione e preoccupazione si mescolano nell'incedere deciso e scrutatore dei professori. I minuti passano, la luce si comincia a levare alta e vigorosa, e la combinazione dell'incremento degli studenti e della diminuzione dell'ombra risulta in una sempre più faticosa convivenza distanziata. Poi la campanella. L'esodo. La folla, innaturalmente scandita da metri di vuoto, si differenzia in nuovi insiemi discreti. Dal caos primordiale dell'attesa sorgono le classi, compatte ed unite. E quindi applaudire, applaudire forte, fino bruciarsi le mani, per l'inizio di questo nuovo anno scolastico. Salire le scale in fila indiana, in processione. Sedersi al proprio posto e togliersi, ritualmente, la mascherina. Purificarsi le mani ed aprire le porte sul cielo. Sperare che tutto vada bene, che non ci venga tolto un altro anno di liceo, di gioventù. E ridere, intristirsi, avere paura ed appassionarsi, stare in classe ed essere vivi. Aspettare la campanella e guardare ossessivamente l'orologio. Infine uscire, col caldo torrido di un settembre esplosivo, tornare a casa sfiniti, e non avere neanche il tempo di dire: "È iniziata la scuola".Tancredi Bendicenti
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