Pochi giorni fa un sottufficiale della Guardia Costiera è annegato per salvare la vita di due nostri coetanei i quali avevano scelto di “andare a giocare” con dei cavalloni alti sette metri nello specchio di mare di fronte a Milazzo. Doveva essere un gioco tanto eccitante da mettere in secondo piano la consapevolezza dei rischi che correvano; o forse tale consapevolezza, semplicemente, non c’era.
Fatto sta che il mare
difficilmente perdona chi lo sfida, difficilmente dà delle possibilità a chi lo
prende di petto con presunzione, a chi non lo approccia con umiltà e rispetto.
La dinamica degli eventi è nota,
sono cose che capitano; la missione principale di un militare della Guardia
Costiera è quello di salvare vite in mare. Punto, fatto assodato. Ma così non
è. Perché se si può aridamente chiudere qui l’analisi dell’accaduto in sé, non
si può fare altrettanto di fronte alla reazione di uno dei due quindicenni soccorsi,
il quale ha stigmatizzato l’accaduto con un sommario “prima di dire che
qualcuno è morto per me… c…o, ce ne vuole”…
Affermazione stupefacente,
sbalorditiva, che richiede delle considerazioni. Ci troviamo di fronte ad un ragazzo
che non solo non ha compreso l’enormità delle conseguenze della sua
dissennatezza, ma non intende neanche comprenderle e, con arroganza,
tronfiezza e superbia riduce la morte di
un uomo che si è sacrificato per lui ad un “nulla”. Potrà continuare a percorrere
la sua vita, mentre un padre lascia orfani due figli. Due vite salvate in
cambio di due vite segnate per sempre.
Non posso non mettermi nei panni
di questi ultimi e chiedermi perché… perché la vita di un uomo dai solidi valori è
dovuta andare perduta per chi quegli stessi valori, evidentemente, oltre a non
condividerli, non li comprende? Che senso ha offrire tutto se stesso se quello
stesso sacrificio non pende nello stesso modo sui due piatti della bilancia?
Perché offrirsi in cambio di qualcuno che non riconosce il valore di un atto
tanto nobile? Cosa condividiamo? Cosa spinge un essere umano a non pensare, a
sua volta, alle conseguenze del suo atto e morire al posto di qualcun altro?
Forse non bisogna cercare troppo lontano. Forse quel sottufficiale in un lampo
di vita ha indossato al posto della divisa la “pelle” di padre e ha visto in quei ragazzi in
difficoltà i propri figli.
Forse lo ha fatto per senso del
dovere, per rispetto della vita, per onorare le sue scelte e i suoi valori profondi;
sicuramente lo ha fatto non aspettandosi niente in cambio. Non ha immaginato,
credo, che alla sua azione dovesse corrispondere una reazione riconoscente (e
cosciente); lo ha fatto per amore della vita stessa. Ha offerto la sua
esistenza non aspettandosi un contrappeso, per il bene di chi era in difficoltà.
Aurelio Visalli, questo è il suo
nome, non ci ha pensato un attimo, a mani nude, spogliandosi della sua divisa
per non avere movimenti impacciati in acqua, solamente con un salvagente… si è
buttato con un solo unico obiettivo fisso nella mente: salvare vite umane.
La risposta a tutte le domande
che possono scorrere nella mente, forse, è una sola e cioè che il suo atto non
è stato compiuto a favore di una singola
persona, ma per “l’altro” in generale, per un valore etico e un valore morale.
Perché il significato dell’eroismo sta nel dare la vita per un apostolato e un
credo, che in questo caso si sono materializzati in un essere che aveva un
bisogno imminente. E lo ha fatto senza fare alcuna distinzione.
Perché le vite altrui in quei
momenti non hanno voce differente dalla tua, non ideali diversi dai tuoi, non
sono giudicabili, meritano solo di essere strappate alla morte.
Quello di Aurelio è un sacrificio che incarna il vero significato della parola; ha fatto appello alle sue conoscenze, al suo addestramento e non ha cercato riconoscenza o debitori. È stato “in grado di amare per tutti e due”, ha amato la vita per il salvatore ed il salvato. E forse proprio nell’atto estremo di tentare di riportare qualcuno alla vita è stato, pur nella morte, coerente con sé stesso. Il salvatore da persona si è fatto simbolo, a sua insaputa.
Questa è stata una tragedia del
mare. Un mare gemello di quello che, dall’altra parte della stessa isola, guardando
verso sud, vede tragedie analoghe ma con attori differenti. Uomini che cercano
la salvezza tra le braccia dei colleghi di Aurelio e che (in questo caso, sì)
sono grati a chi li issa verso l’asciutto di una imbarcazione sicura; dimostrazione
dell’universalità dei valori onorati da un uomo morto pur di non dover soffrire
il rimorso di essere arrivato troppo tardi, perché chi fa quel mestiere vive,
probabilmente, nel terrore di trovarsi nei panni di chi non può più fare
niente; del militare turco che teneva tra le braccia il corpo senza vita del
piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni che annegò nelle acque del Mar
Egeo inseguendo la felicità con suo padre.
C’è chi la felicità, come loro,
la cerca altrove dalla sua terra, quella vera, quella che corrisponde ad una
vita migliore, e chi la cerca tra i cavalloni alti sette metri, confondendo il
senso profondo della vita con una banale, stupida, momentanea e ignorante
scossa di adrenalina.
Aurelio Visalli non è banalmente “morto”; ha sublimato la sua esistenza lasciandoci un messaggio che sta alla base della sopravvivenza della specie umana, quella senziente, quella “eletta”: e cioè che la vita, nella sua pienezza, si celebra attraverso la difesa dei più piccoli, degli indifesi, dei deboli, con buona pace di chi pensa che la forza e violenza siano la chiave per farsi strada tra le difficoltà anche se questo vuol dire mettere il loro bene davanti al nostro.
Giacomo Di Maria
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