L’ossuto viso del Signor Affel avanzava nel buio viscoso dell’asfalto. Le scarpe consunte e rovinate strappavano lembi di artificio alla terra, rivelandone la natura primordiale. La luce strisciava intorno agli oggetti, avvolgendoli in una parvenza di visibilità. E tutto era inessenziale. Inutile. Il vento strideva sull’acciaio delle automobili, insinuandosi nelle fessure arrugginite dei motori. Il signor Affel era un uomo anziano, esausto, sfiancato, vinto. Ancorato ad un passato doloroso, incapace di vivere oltre.
Teneva nella mano destra un
orologio d’oro, lucidato in ogni sua sfumatura, incoerente rispetto al resto
del suo aspetto. Un pegno ininfluente di un’infanzia felice. Nella vita non
aveva mai perso nulla. Non aveva, più che altro, mai avuto nulla da perdere. Aveva
sposato senza amore una donna che non lo amava. Il matrimonio era durato a
lungo, reggendosi sulla solitudine cicatrizzata che li accomunava, puntellato
da ricordi sbiaditi e talvolta gradevoli. Poi lei era morta, giovane, ma già
invecchiata. Lui non aveva pianto. Non per cattiveria, o per odio, ma per indifferenza.
Qualche volta aveva chiamato il suo nome opaco, quando, sceso dalle scale, la aveva
cercata in cucina, in attesa di un caffè. Qualche notte si era svegliato di
sussulto, cosciente del vuoto che gli si era formato accanto, nel letto. Di figli
non ne avevano avuti. In alcuni giorni particolarmente lieti avevano pensato ad
averne uno, un maschio. Lo avrebbero chiamato Stephen, ed avrebbe avuto un
sorriso largo e pieno di denti. Si sarebbe laureato, e avrebbe portato gli
occhiali di chi passa la vita a studiare. Ma Stephen non era mai arrivato, per
fato o per accidia, ed il grembo di lei, col tempo, non lo aveva più potuto
crescere. Gli anni successivi alla morte della moglie erano passati noiosi,
inutili, mortali. La pensione gli aveva tolto anche il diletto della fatica, la
possibilità di una socialità costretta. Divideva la giornata tra libri sciapi e
risate televisive, senza mai rivolgere il pensiero al denaro, all’amore, o al cielo.
Il signor Affel era, insomma, un uomo infelice. Camminava scricchiolante sulla
strada mesta, invigorito dalla prospettiva di una morte certa. In mano teneva un
blocco di cemento, legato alla caviglia da una catena. Sentiva le falangi
sfaldarsi sotto il peso della costruzione. Ma il ponte era vicino, visibile,
accogliente. I lampioni, faro dei morti annunciati, lo attraevano alla meta. La
ringhiera era gelida, di acciaio antico. Al di là di essa si estendeva uno
stretto balcone arrugginito, di poco più di un piede. Non sapeva come
scavalcare l’ostacolo. Gettò il peso sulla sporgenza, facendo attenzione che
non rischiasse di cadere. Poi cominciò ad issarsi sulla ringhiera. Sperava di
non essere visto; d’altronde, come ultimi momenti, i suoi facevano pena. Infine,
riuscì a poggiare entrambe le ginocchia dall’altra parte. Aveva sempre sofferto
di vertigini. Stavolta no. La morte calma, talvolta. Non era sicuro su come
proseguire, se gettare prima il cemento, e lasciarsi trascinare, oppure
gettarsi insieme ad esso, e mantenere il controllo. Optò per la seconda. Guardò
la strada ancora una volta. Non era per lui di alcun conforto. Si guardò le
mani arrossate dallo sforzo, ricoperte di rughe e nei: non valevano la pena di
essere osservate. Infine, immaginò di specchiarsi, di accarezzarsi il naso
adunco, i capelli radi e rigidi: non valevano la pena di essere pettinati. Rivolse
lo sguardo verso il buio allettante del fiume. Dubitò, per un attimo. Si vide arrancare
indietro sudato, per vivere un altro mattino. Poi fece un passo in avanti.
Cadde. Il tempo si fece silenzioso. Il nulla lo abbracciò. Non c’era dolore
nella caduta, non c’era rimprovero. La luce riflessa di un lampione, bianca e
accecante, unica nella voragine del nero, lo attraeva a sé, albeggiante e
calda. Poi si fermò. L’acqua come catrame soffocò la luce. Dal liquido sorse
una figura. Umana e di carne, fisica in ogni suo aspetto. Una donna ben vestita
e privata dei capelli, pallida e immobile, con le dita rivolte verso l’inferno,
gli occhi verso il cielo. Sua moglie. Voleva continuare a cadere. Senza
fermarsi. Attraversare quel corpo pesante e ingombrante, come fosse vuoto. Ma
non poteva. Era lì, sospeso, ringiovanito. Potente e vigoroso. Eppure, alieno
alla vita, alla vitalità, al movimento. Un altro cadavere uscì dal fiume.
Gracile ma sano. Fresco. Gli occhi spalancati e sbiaditi, un sorriso inciso sul
volto, sfavillante di denti bianchi. Suo figlio, o ciò che avrebbe potuto
essere. Una corrente di ricordi turbinava nel suo cranio sconvolto, sotto quei
capelli appena ricresciuti e ricoloriti. Dei libri che non aveva letto, degli
studi che non aveva condotto, degli amori che aveva rifiutato, delle passioni
che aveva smorzato. E tutto rimbombava tremendo nella sua testa, senza poter
fuggire, acuendosi sempre più, come un’eco inverso. Nulla poteva salvarlo da
quell’essere sospeso, da quell’essere vivo ma impotente. La sua vita ed i suoi
fallimenti, le sue mancanze ed i suoi peccati, lo separavano dalla pace
definitiva. E stette così, immobile, finché non venne meno la stirpe
dell’Uomo.
Tancredi Bendicenti
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