venerdì 27 novembre 2020

Vizio di colpa

 


Camminava lenta, trascinando i piedi sulla terra bagnata. Alzò lo sguardo verso le nuvole cariche di pioggia, che continuavano a gonfiarsi. Sorrise amaramente, mentre

continuava a trainare il suo corpo stanco verso il muretto: da lì si vedeva tutta Roma. Una lacrima le scese lungo la guancia, mentre la pioggia le lavava il viso e bruciava sulla sua pelle arrossata.

Un respiro profondo e si issò sulla pietra: un passo falso e sarebbe precipitata giù. Guardava la città intera, con il cuore palpitante: la storia si stava svolgendo sotto i suoi piedi, tutte quelle persone che camminavano veloci, prese dai loro pensieri, da una tazza di caffè. Tutte quelle persone erano la storia. E lei? Se lo domandava, mentre guardava giù: un ragazzo che correva verso la sua macchina, un ombrello rotto in mano. E lei faceva parte di quel gruppo di persone che la storia la percepiva, mentre la realizzava.

Stava lì, ferma a guardare il cupolone, mentre nella sua mente si faceva più forte il lontano eco delle sue parole: fermati, per favore. La pioggia bagnava il muretto e le sue Converse scivolavano piano sul bagnato. Aveva paura di cadere, eppure non si mosse.

Per favore, fermati. Non mi va.

Ancora, rimbombavano forti: sentiva le sue mani addosso, mentre le toglieva lentamente la maglietta. Immobile; lei rimane immobile: terrorizzata dall’idea di offenderlo, dall’idea di mandarlo via.

Dai, sono seria, non ho voglia. Lentamente, senza forza, cerca di allontanare la sua mano. Non si ferma: implacabile, le strappa via l’anima insieme al reggiseno.

Guardò verso il basso: aveva perso la dignità, quando lo aveva perdonato. Aveva perso parte di sé, quando glielo aveva permesso di nuovo. Aveva perso tutto, quando lui decise di prenderselo.

Si sentiva gelare il sangue, ripensando a quando in preda al terrore, al terrore puro, si era alzata di scatto dal letto, cadendo a terra. Ti rendi conto? Ti rendi conto di quello che mi hai fatto?

No, non si rendeva conto: versava finte lacrime, mentre le chiedeva scusa e lei lo abbracciava. Non se ne rendeva conto neanche lei.

Si sentiva invincibile, si sentiva intoccabile.

Eppure era lei, in cima a quel muretto, a sentirsi in colpa di qualcosa che non aveva fatto.

Era lui, in cima al suo castello di luride stronzate, a sentirsi male per quello che non era riuscito a fare.

Cadde verso il pavimento, sbattendo a terra. Non fa rumore un cuore quando si spezza e si lacera dentro al petto; fa rumore un piccolo corpo quando cade: un tonfo sul pavimento bagnato.

Rimase lì, sdraiata a terra, con lo sguardo fisso sopra di lei: immobile. Il cuore le batteva all’impazzata dallo spavento. Non ci sarebbe più tornata, lì sopra. Mai più avrebbe pensato una cosa del genere. Se lo promise, mentre una tremenda consapevolezza faceva strada nel suo animo: nessuno lo sapeva, la sua vergogna era solo sua. E mai, disse, lo avrebbe denunciato.

Flavia Gatti 

https://nonunadimeno.wordpress.com/

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