Camminava lenta, trascinando i piedi sulla terra bagnata. Alzò lo sguardo verso le nuvole cariche di pioggia, che continuavano a gonfiarsi. Sorrise amaramente, mentre
Un respiro
profondo e si issò sulla pietra: un passo falso e sarebbe precipitata giù.
Guardava la città intera, con il cuore palpitante: la storia si stava svolgendo
sotto i suoi piedi, tutte quelle persone che camminavano veloci, prese dai loro
pensieri, da una tazza di caffè. Tutte quelle persone erano la storia. E lei?
Se lo domandava, mentre guardava giù: un ragazzo che correva verso la sua
macchina, un ombrello rotto in mano. E lei faceva parte di quel gruppo di
persone che la storia la percepiva, mentre la realizzava.
Stava lì, ferma a
guardare il cupolone, mentre nella sua mente si faceva più forte il lontano eco
delle sue parole: fermati, per favore.
La pioggia bagnava il muretto e le sue Converse scivolavano piano sul bagnato.
Aveva paura di cadere, eppure non si mosse.
Per favore, fermati. Non mi va.
Ancora,
rimbombavano forti: sentiva le sue mani addosso, mentre le toglieva lentamente
la maglietta. Immobile; lei rimane immobile: terrorizzata dall’idea di
offenderlo, dall’idea di mandarlo via.
Dai, sono seria, non ho voglia. Lentamente, senza
forza, cerca di allontanare la sua mano. Non si ferma: implacabile, le strappa
via l’anima insieme al reggiseno.
Guardò verso il
basso: aveva perso la dignità, quando lo aveva perdonato. Aveva perso parte di
sé, quando glielo aveva permesso di nuovo. Aveva perso tutto, quando lui decise
di prenderselo.
Si sentiva gelare
il sangue, ripensando a quando in preda al terrore, al terrore puro, si era
alzata di scatto dal letto, cadendo a terra. Ti rendi conto? Ti rendi conto di quello che mi hai fatto?
No, non si rendeva
conto: versava finte lacrime, mentre le chiedeva scusa e lei lo abbracciava.
Non se ne rendeva conto neanche lei.
Si sentiva
invincibile, si sentiva intoccabile.
Eppure era lei, in
cima a quel muretto, a sentirsi in colpa di qualcosa che non aveva fatto.
Era lui, in cima
al suo castello di luride stronzate, a sentirsi male per quello che non era
riuscito a fare.
Cadde verso il
pavimento, sbattendo a terra. Non fa rumore un cuore quando si spezza e si
lacera dentro al petto; fa rumore un piccolo corpo quando cade: un tonfo sul
pavimento bagnato.
Rimase lì,
sdraiata a terra, con lo sguardo fisso sopra di lei: immobile. Il cuore le
batteva all’impazzata dallo spavento. Non ci sarebbe più tornata, lì sopra. Mai
più avrebbe pensato una cosa del genere. Se lo promise, mentre una tremenda
consapevolezza faceva strada nel suo animo: nessuno lo sapeva, la sua vergogna
era solo sua. E mai, disse, lo avrebbe denunciato.
Flavia Gatti
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