L’umanità e la nostra vita individuale sono sempre state strettamente legate alle storie; attraverso ad esempio i pettegolezzi, le leggende o la lettura dei libri. Queste storie insieme modellano facilmente
l’identità, il pensiero, i rapporti interpersonali, la società. A prescindere da tutto, le storie non sono solo fonti di intrattenimento, ma anche di insegnamento, anche se il confine tra i due è estremamente sottile.
L’antropologo novecentesco Kurt Vonnegut, dopo aver studiato numerose storie, ha concluso che, nonostante le differenze culturali e storiche, possono essere suddivise in categorie riportate nell’immagine sottostante.
Molte storie, soprattutto al giorno d’oggi, si auto-impongono una distinzione artificialmente universale tra il carattere “buono” e “cattivo” degli eventi e dei personaggi in relazione ai protagonisti, rappresentando una classificazione nettamente dualistica della realtà.
Succede che, soprattutto nel caso dei bambini, si proietta questa struttura dalla finzione alla propria realtà, creando visioni limitate della vita e aspettative destinate ad essere infrante. Tale proiezione non ha solo a che fare con il ruolo degli elementi nella storia, ma anche con altri fattori come il dialogo e il comportamento dei personaggi, spesso architettati non allo scopo di rispecchiare la realtà quanto di intrattenere lo spettatore e avere profitti.
Una storia realistica mantiene distacco e ambiguità dal bene e dal male, ponendo così il protagonista allo stesso livello dello spettatore, in quanto incerti sul susseguirsi degli eventi e del loro ruolo nella trama.
Il caso più rappresentativo è la tragedia “Amleto” di William Shakespeare. Per tutta l’opera il principe, di fronte a continui eventi ambigui e incerti, è combattuto tra l’irrequietezza dei suoi pensieri irrisolti e l’esitazione di un agire mai avvenuto, se non costretto da circostanze esterne in punto di morte, ma anche qui il significato dell’atto sembra mancare per l’assenza di iniziativa. Amleto non ha subito ucciso lo zio dopo aver saputo delle sue colpe perché è perennemente indeciso su come vedere la realtà, e cerca di prolungare il tempo di riflessione e procrastinare l’omicidio fingendosi pazzo, ma il reale non ha fatto che sfocarsi ancora di più. Neanche la sua morte è nettamente negativa perché sembra aver posto fine ai suoi tormenti, e in più lui non crede nell’esistenza del Paradiso né dell’Inferno.
Non intendo dire che il valore di un’opera equivalga a quanto l’artista riesca a rispecchiare la realtà, perché a volte anche la totale finzione trasmette i messaggi più autentici, se si ha occhio. Quello su cui mi vorrei soffermare è che Shakespeare in questa tragedia ha catturato l’autenticità dell’uomo, che è infatti l’incertezza. Mi capita a volte di uscire dal cinema o chiudere un libro e restare delusa dalla mancanza di eleganza nella realtà. I dialoghi non hanno poeticità, gli errori delle persone non hanno significato artistico e gli eventi non sembrano essere spinte da una forza magica. Certo, è impossibile riprodurre totalmente la realtà in una storia senza che perda la sua eleganza, ma Amleto presenta un mondo come il nostro, dove, da una prospettiva meno soggettiva, nessuna scelta e nessun evento sembra essere indirizzato ad una definizione precisa.
Personalmente penso che ogni tipo di cambiamento, anche il più straziante, soprattutto su scala individuale, contribuisce potenzialmente all’espansione (diversa dalla felicità) di sé e degli altri, così come la freccia prima di essere lanciata dall’arco deve essere tirata all’indietro.
Ogni evento va oltre ogni significato dato dall’uomo, inconsapevole delle possibilità future.
Se pensare su larga scala nulla sembra essere certo, vivere il momento presento è l’unica soddisfazione.
Kelly Hu
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