Il rito del Presepe, soprattutto al centro sud, rappresenta un momento fondamentale del periodo dell’Avvento. E come tutti gli anni anche stavolta la mia casa
è stata inondata da un turbinio di scatoloni impolverati, chiusi da strati sovrapposti di scotch di vari colori a testimonianza delle innumerevoli volte in cui sono stati aperti e sigillati per poi trascorrere nel dimenticatoio dello scantinato undici lunghi mesi. Undici mesi di vuoto, di “immobilità” di oggetti che sono immobili per definizione, ma, non si sa bene per quale magia, per un solo miracoloso e prodigioso periodo prendono vita; una vita che assume sfumature e forme diverse a seconda del cuore con cui chi allestisce quello stesso Presepe, lo osserva e gli trasmette la scintilla dei ricordi che alberga nel più profondo della sua anima.Eppure quest’anno quella scintilla,
quella magica ispirazione, nel mio cuore non trovava spazio alcuno. Dopo la inevitabilmente
inutile fatica di tirare fuori sfondi, capanne, pezzi di sughero e strutture
varie, per la prima volta quei pezzi erano effettivamente solo "pezzi" di
legno, carta, creta. Cose, solo cose senza senso. Come senza senso era il fatto
di costruire qualcosa che nessuno avrebbe visto la notte di Natale, intorno a
cui nessuno si sarebbe scambiato abbracci, che nessuno avrebbe guardato
facendosi trasportate indietro nel tempo fino alla propria fanciullezza. Che
senso avrebbe aspettare il ritorno dalla Messa di mezzanotte per sistemare il
Bambinello nella mangiatoia se a mezzanotte devi essere a casa già da due ore?
Era con svogliatezza, apatia, con
mancanza di trasporto che quest’anno osservavo tutto quello che avevo davanti senza riuscire a dare un senso al
“materiale” che stavo faticosamente scartando.
In genere il bello di stare tutti
riuniti a rinnovare questo cerimoniale mentre il naso viene solleticato dal
profumo degli aghi di pino dell’albero di Natale - che se ne sta lì, ricoperto
da addobbi e fili di luci, ad osservarti orgoglioso perché guarnito per primo -
è dato dal fatto che quella riunione è un evento straordinario nella ordinaria
vita di tutti i giorni fatta da ore passate fuori casa, a scuola, al lavoro. E
quest’anno invece no. Lo stare a casa è cosa ordinaria mentre straordinario è
il poterne uscire con un motivo.
Quanto ci è mancato l’ultimo giorno di
scuola prima delle vacanze, fatto di saluti, abbracci, cappelli rossi da Babbo
Natale indossati sulla divisa e straordinariamente tollerati da preside e
vicepreside? E quanto ci è mancato il mese di dicembre in cui si
avvicenderebbero normalmente eventi scolastici che ci univano e ci
trasportavano in un’atmosfera magica che aspettavamo per un anno intero? Quanto
ci sono mancati il Presepe e gli alberi
addobbati davanti ai quali passavamo tutti i giorni entrando e uscendo da
scuola? Quest’anno noi siamo stati come quei pezzi dormienti del mio Presepe
chiusi nel fondo di uno scantinato. Con la sensazione che non ci fosse nessuno
in grado di tirarci fuori dai nostri
scatoloni ben sigillati per regalarci un mese di magia.
E perciò, tornando al mio architettonico
e faraonico progetto casalingo, in queste condizioni quest’anno proprio non
trovavo l’innesco, la forma da dare alle cose. E dire che si fa un enorme
Presepe a casa nostra, con un “rito” che inizia col solito pellegrinaggio a San
Gregorio Armeno alla ricerca del pezzo che manca e il cui acquisto dà a tutti
una gran soddisfazione.
Ho provato a rabberciare una parvenza di
ambientazione con quegli stonati elementi; la carta roccia spiegazzata sulla
base, le pesanti e ingombranti strutture
appoggiate alla rinfusa sul mobile,
con i fili elettrici pendenti. Svogliatamente, senza logica, senza un
progetto, senza senso, senza amore. Poi
ho pensato di toglierlo; tanto per chi mai lo facevo? La decisione presa
era che quest’anno il Natale sarebbe passato senza presepe monumentale.
Ho osservato per ore quella
desolazione. A un certo punto ho
smontato tutto, tabula rasa. Ho provato anche un certo senso di liberazione,
come se mi fossi tolto un enorme peso dalle spalle e dall’anima.
E all’improvviso è successo qualcosa.
Le mani hanno trovato il modo di
disconnettersi dal cervello, annichilito dalla realtà, ed allacciarsi al cuore,
che resiste ai dolori e alle angosce protetto da una corazza fatta di sogni,
creatività ed inventiva. Gli occhi hanno bypassato il centro razionale del
comando e si sono umilmente lasciati ispirare e guidare dalla fantasia. Le
“cose” hanno magicamente cominciato a prendere forma e trovare la loro
destinazione, perdendo la connotazione di oggetti e trasformandosi in simboli,
elementi di vita.
Rocce, stagni, case, fontane, fuochi,
forni, alberi e personaggi, che la memoria aveva rimosso, sono saltati
fuori e hanno preteso il loro posto
nella rappresentazione. Ciò che è insignificante oggetto inanimato ha trovato
il suo scopo, il suo ruolo cruciale, ha offerto agli sguardi fuggenti il
simbolismo per chi è stato creato.
Nonostante i segni del tempo, le
statuine con le braccia riattaccate, la pecora con la zampa definitivamente
amputata ma gelosamente custodita e tramandata di generazione in generazione,
hanno ripetuto il miracolo ricordando a me e a tutti che ciascuno tanto nella
finzione scenica quanto nella realtà fatta da umani sentimenti, ha il suo
ruolo, il suo posto specifico e ammonendoci riguardo al fatto che, come nel
significato evocato dai singoli personaggi del Presepe, così tra gli esseri
umani nessuno è sostituibile, perché ognuno, nella sua irripetibile varietà, ha
un posto specifico, un ruolo specifico e un compito specifico, e questo compito
specifico non è svolto né terminato se siamo ancora su questa terra.
E man mano che le dita poggiavano le
statuine di terracotta sulla base nuda, quella strana sensazione di impotenza,
di galleggiamento nel tempo che questa interminabile e assurdamente prolungata
situazione ci sta imponendo, ha trovato una analogia con quel rito che ogni
anno si ripete. Ciò che è inutile ed effimero per undici mesi, salta fuori
dalla polvere per ricordarci che ognuno di noi, anche chi si sente inadeguato,
inutile, mai all’altezza, spaesato, indesiderato, ha comunque il suo scopo e la sua missione.
Il suo primo e doveroso compito è comprenderle e interpretarle entrambe. E se
siamo ancora qui quegli obbiettivi non
sono stati portati a termine. E non importa con quale personaggio di creta ci
possiamo o vogliamo identificare: non è fondamentale che ci si senta pecora a tre zampe, cane da pastore,
pescatore, cacciatore, oste, o ancora il
pastore dormiente Benino, l’angelo con l’ala rincollata, o addirittura l’anima
pezzentella del Purgatorio… l’importante è che lo Spirito del Natale ci aiuti e
ci sostenga in questo lungo momento in cui abbiamo ancora bisogno di sentirci
uniti anche se distanti, simili anche se diversi, fragili anche se in salute.
Arriveranno Natali migliori di questo, ma non lasciamo che il Natale presente
passi senza che ci abbia lasciato in dono la consapevolezza di essere vivi,
fortunati, pezzi unici e irripetibili. Non perdiamo questa occasione per capire che siamo tutti piccoli puntini
nell’universo che, anche se distanti, compongono la moltitudine di anime belle
che tutte insieme, come l’amore, muovono “il sole e l’altre stelle”.
Iniziando da questo giorno, alla luce di ciò che ci
circonda, togliendoci le nostre maschere, spogliandoci degli orpelli che pesano
sulle nostre persone e che ci costringono ad assumere corazze delle quali
faremmo volentieri a meno. Tutti. Facciamoci il regalo di poterci presentare
semplici al nostro prossimo e a noi stessi, senza barriere emotive in modo che
la distanza fisica che ora è obbligatoria possa scomparire, annullarsi lasciando che i nostri cuori si tocchino.
Svegliamoci dal torpore, andiamo verso
il futuro con speranza e apprezziamo questo strano, intimo, raccoltissimo
Natale più che domestico, immaginando e sperando che il prossimo possa tornare
ad essere un Natale tradizionale.
Giacomo Di Maria
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