sabato 26 dicembre 2020

SHELTER FROM A HARD RAIN

 



di canzoni, storie e Bob Dylan. 

Non mi sarebbe possibile parlare di Dylan con fredda oggettività senza una scintilla di emozione, e viceversa mi sarebbe difficile fare la stessa cosa soggettivamente tralasciando l'importanza che Robert Zimmerman ha avuto per il panorama della grande tradizione della canzone americana e del mondo.

Non sono qui per fare nessuna delle due cose in effetti, non voglio parlare di cosa significano delle canzoni per me e non sono qui a scrivere un bieco resoconto della loro vita.


Ho sempre avuto un buon rapporto con la musica. Sin da quando mio padre condivideva i suoi acquisti di iTunes con me, la musica mi è sempre stata addosso, alle gare, a scuola, in viaggio, in testa. Tutto iniziò con artisti di cui non conoscevo nulla, neanche la lingua o il paese; intorno alle medie sentivo Bowie e Cash e una buona dose di musica contemporanea senza però, credo, né comprendere le parole né il contesto. Quello era il periodo più genuino del mio rapporto con la musica, la musica stava lì, un atomo incerto tra il falso e il vero ma comunque vicino a me e così era anche Dylan, un cantante che personalmente non mi piaceva, non capivo e mi sembrava arrogante. 

Con il liceo iniziai a conoscere ogni genere che potessi, imparai ogni singola canzone di Guccini e degli Arctic Monkeys e, resomi conto della netta superiorità del primo, lo approfondii ancora di più. Questo approfondimento mi porto, eventualmente a conoscere veramente Dylan.


Con il passare degli ascolti, le mie idee sulla musica “vecchia” si sono rafforzate, e a mio malgrado mi sono accorto della grandissima fragilità che la musica come tante altre arti può avere. 

Ci stiamo muovendo verso un mondo difficile da criticare, semplice nei modi ma naturalmente complesso, i vecchi valori fanno largo ai nuovi e così via.

Così è, in apparenza, anche nel mondo della canzone che è forse l’esempio più lampante di fugacità e di tendenze che fanno parte del nostro mondo. 

Questo modo di fare ci ha portato ad analizzare troppo il presente confondendo il nostro passato più prossimo come qualcosa di, perdonatemi, remoto.

Solitamente cerco sempre di evitare musica troppo commerciale, non perché non mi piaccia sia chiaro, ma perché mi piace ancora di più avere il gusto di poter criticare meglio ciò che è stato, lo trovò più affascinante, più archeologico. 

Credo infatti che in generale l’uomo sia incapace di criticare ciò che gli è contemporaneo rispetto al suo passato, abbiamo una capacità naturale nel comprendere meglio e con più razionalità ciò che è lontano da noi.


Tornando a Dylan e compagnia cantando, credo che le canzoni siano per definizione qualcosa di immortale, sicuramente più longeve dei cantanti; tuttavia se nessuno le ascolta cadranno nel dimenticatoio.

Paradossalmente la “gente” sa benissimo (o quasi) chi sia un cantante senza conoscerne una singola canzone e viceversa remmentano canzoni e melodie senza però sapere chi stia cantando (questa secondo è personalmente la via migliore). 

È anche vero che l’appeal di un cantautore cali vertiginosamente nel tempo fino quasi a scomparire, e non sempre perché vi è stato un effettivo peggioramento della sua produzione ma perché, magari il tempo ha dato ciò che ha potuto e sarebbe superbo chiedere ancora.

Molti artisti si bloccano e perdono la capacità di adoprare il proprio talento, molti muoiono (il che non fa male alla loro immagine), altri ancora non avevano talento in principio e na hanno pagato le conseguenze; altri, come Dylan, sono semplicemente Dylan. Scusate l’idolatria sono di parte. 

Dylan riesce a superare se stesso ammettendo la sua incapacità di ricreare pezzi perfetti come quelli di ad esempio “Bringing it all back home”.  In un’intervista disse così: “non so come ho fatto a scrivere quelle canzoni, tutte quelle prime canzoni erano quasi scritte per magia. Beh, prova a metterti seduto e scrivere qualcosa del genere! È una cosa che ha del magico, ed è un genere differente di penetrante magia e io questa cosa l’ho fatta una volta, e ora non posso più. Non si può essere in grado di fare una cosa per sempre, l’ho fatto una volta, ora posso farne altre ma non quella”.


Perciò se potete, se vi va, ascoltate qualcosa di vecchio, perché abbiamo i mezzi e le capacità critiche che nessuno ha mai avuto prima.

Livio Sacchetto 

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