mercoledì 13 gennaio 2021

Boris, o la dialettica della qualità


 

“Tu ‘o vuo’ sape’ qual è ‘o segreto per sta buono nella vita?”

“Eh”

“’A palestra”

(Padre Gabrielli e Biascica) 

Oggi mi impegno, mi imbarco, in un’impresa impossibile, improbabile, improponibile:

amalgamare Hegel con Boris. A tutti coloro che me lo hanno cercato di impedire, io dico: “Avete fatto bene, ma avete fallito”. Ma cosa hanno in comune una serie TV sulla TV italiana ed il padre della filosofia contemporanea (mi scuso in anticipo per le ampissime generalizzazioni, ma sono rese necessarie da forma e contesto di questo articolo)? La risposta naturale, ed inoltre corretta, è “poco o niente”. Ed è una risposta che sarebbe meglio accogliere di buon grado, senza sprecare ulteriori e preziosi istanti in un’indagine al massimo assurda, al minimo demenziale. Eppure, io, qui, non mi posso arrestare: devo andare oltre (“verso l’infinito e oltre”: direbbero Buzz Lightyear o Stanley Kubrick: dipende dai riferimenti culturali). Lavoriamo, perciò, su quel “poco” (che, comunque, ancora niente non è). La nuova soluzione, la mia soluzione (quella sbagliata) è: la dialettica, ossia il procedere triadico del pensiero e delle cose. Cos’è la storia di Boris, infatti, se non la riaffermazione di un’affermazione negata? Renè Ferretti è un regista sconfitto, che si è arreso a fare TV spazzatura. “Gli occhi del cuore” è il peggio che ci sia in circolazione: lui ne è consapevole. Da tale insoddisfazione, però, Renè trae la forza necessaria per cambiare. L’obiettivo è uno: qualità. Attraverso Medical Dimension, il soggetto esce da sé, e trapassa nel suo opposto: il regista arreso si fa regista impegnato. Eppure, lo stesso Medical Dimension, non completa la sua persona. Il lavoro del servo non è capace di emancipare lo stesso dalla propria condizione. Egli è insoddisfatto sia dalla sola non-qualità, sia dalla sola qualità. Ed è ora che interviene l’aufheben, il superamento, la tesaurizzazione: dopo il fallimento di “Medical Dimension” (di cui qui non svelerò i particolari), Renè è finalmente capace di emanciparsi, attraverso l’opera delle sue mani e del suo intelletto, dalla limitatezza della sua condizione. Il regista, con “Gli occhi del cuore 3”, riafferma il postulato della non-qualità, eppure, contemporaneamente, ne elimina le debolezze: la svogliatezza diviene gioiosa voglia di essere svogliati; impera la locura. Renè, e con esso lo spettatore, raggiunge finalmente l’autocoscienza.  Sono pienamente consapevole del fatto che una piccola percentuale dei lettori abbia visto Boris, una percentuale ancora minore abbia studiato Hegel, ed una percentuale infinitesimale abbia compreso pienamente l’uno o l’altro (soprattutto i misteri gnostici celati nel primo). Confido che queste parole siano state buttate al vento, sentenze inudite di Zarathustra. Eppure, forse, qualcuno riuscirà ad atterrarle mentre sono ancora in aria, come una quaglia della festa del Grazie.

Tancredi Bendicenti

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