Marco
Lei aveva i capelli neri, e si intrecciavano nel vento, nella melodia del mare.
Ogni suo passo era silenzio, ogni suo sospiro musica, ogni suo sguardo luce. Il sole splendeva al tramonto, e le onde si infrangevano sulla battigia, rimescolando la sabbia in turbini di sale. Era una giornata di giovinezza, una giornata d’estate. Marco ritornava spesso a quei momenti delicati, soprattutto d’inverno, quando il freddo di Torino penetrava nelle ossa fino a gelare il midollo. La città era grigia, gli mancava la Sardegna, e sua nonna Maria con la sua piccola casa di contadina, dove l’elettricità, talvolta, lasciava spazio alle stelle. Ora stava stringendo una sigaretta tra le labbra. In mano teneva uno di quei pacchetti spaventapasseri, con foto di morte ed ospedali in copertina. A lui non importava. Il fumo lo calmava. Gli distendeva la pelle, le vene, il sangue. Gli riempiva i polmoni ed il naso di grigio e placido catrame.Non la aveva più rivista. Amica di amici, di un’altra città, di un altro dialetto. Il nome non voleva pensarlo: era avvolto e lo avvolgeva di nostalgia, di una malinconia da film anni 50, di baci fugaci e forti, di cappotti e cappelli lunghi. Però ogni tentativo si era rivelato vano. Quelle sei lettere correvano nei solchi della mente, rincorrendosi e scambiandosi.
HCAIAR
AIHCRA
ARCHIA
CHIARA
Si, Chiara. Il nome era quello. Chi-a-ra. La lingua rivolta trottava sul palato roteando sulla r. E quegli occhi, quegli occhi bruni e comuni, di tutte, ma solo suoi, unici. Avevano parlato poco, poco davvero. Forse si era immaginato tutto. Anche lo sguardo, e il raggio che conteneva. L’autobus stava tardando. La pioggia appesantiva l’aria.
Chiara
I posti intorno a lei erano vuoti. L'affanno dell’università le aveva increspato i cappelli. Teneva i libri appoggiati sulle ginocchia, premuti sulle gambe. Da un po’di tempo, ormai, aveva cominciato a portare gli occhiali. Infatti, le lenti a contatto, dopo il liceo, avevano assunto un fastidioso alone di civetteria. Non curava i suoi abiti più di tanto: non le interessavano. Indossava un paio di jeans, con degli strappi passati di moda due anni prima, una camicia, anonima tanto da essere rara, ed un maglione spesso, che sembrava cucito da Nonna. Canticchiava un ritmo di Battisti, senza ricordare bene le parole, riempiendo i vuoti con mucchi di lettere male articolate, un po’ ubriache. Era arrivata alla settima fermata. Ne mancavano otto. Le porte si aprirono col loro rantolo abituale. Vide un ragazzo. Della sua stessa età, con un cappotto di feltro. Prima di salire aveva gettato una cicca per strada, senza neanche preoccuparsi di spegnerla.
“Guardi che esistono i cestini”
Il ragazzo si girò. Lo conosceva. Lo spilungone del mare. Marco?
Marco
“Ch…Chiara?”
“Oddio scusa, non ti avevo riconosciuto”
“No, no. Avevi ragione. Non mi riesco a levare questo vizio del fumo… Ma dimmi, invece, come va? Perché qui a Torino?”
“Studio qui, ora”
“Si?”
“Già”
Fu uno di quei momenti che sembrano essere stati scritti da una mano invisibile, da un romanziere poco originale, in uno sprazzo di noia. Le probabilità di quell’incontro erano pressoché nulle. Solo per caso, quel giorno, aveva preso l'autobus, e, sempre solo per caso, a quella fermata diroccata. Parlarle, sì, parlarle. Se non ora quando?
“Ti va di prendere un caffè?”
“Perché no”
Ed entrambi sentirono il freddo che gli era penetrato nelle ossa dileguarsi, come un vento stagionale, senza avvertire. La primavera era scoccata in anticipo.
Tancredi Bendicenti
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