mercoledì 24 febbraio 2021

Myanmar: il prezzo della libertà

 

Naypyidaw, 9 febbraio 2021.

Una folla oceanica di persone, giovani perlopiù, si ammassa lungo i viali della capitale del Myanmar. Protestano.

Determinati, “indignati”, ma non inferociti. Non possono sopportare né tollerare il fatto che la storia si ripeta, che la democrazia, anelata per decenni e ottenuta lasciando migliaia di morti lungo i sentieri della storia dell’antica Birmania, soffochi nuovamente sotto la scure dei regimi militari.

Ma è comunque successo di nuovo. Otto giorni prima, il 1 febbraio, un golpe militare ha destituito il governo democratico e ha instaurato una dittatura militare. Le cariche governative sono state tratte in arresto. 

E la gente è scesa in strada. Nonostante tutto. Nonostante i convogli di cingolati schiaccino l’asfalto dello stradone che, lasciandosi la Grande Pagoda di Uppasanti  sulla destra, la Pagoda della “Pace” (che bella pace -ndr.), dirigendosi verso la zona ministeriale, verso i palazzi del governo.

E tra queste migliaia di persone c’è anche  Mya Thwe Thwe Khine. Ha 19 anni, Mya. Si stringe al fratello, mentre la gente la trascina in un fiume di risentimento. 

Mya è nata nel 2002, sotto il regime militare che nel 1962 ha messo fine a quei miseri quattordici anni di libertà di cui il paese aveva beneficiato dopo l’autonomia ottenuta dalla Gran Bretagna; ma Mya nel 2010 era abbastanza grande per assaporare il meraviglioso senso di leggerezza che i birmani provarono quando ci fu una svolta democratica che vide aprire le porte delle carceri agli attivisti che prima di lei protestarono contro il precedente regime. E vide tra loro Aung San Suu Kyi, già Premio Nobel per la Pace, che sarebbe diventata Consigliere di Stato nel 2015, dopo le prime libere elezioni della Repubblica di Myanmar. Chissà quanta ispirazione ha trovato la giovane Mya in Aung, combattente come lei, nella quale fremeva uno spirito libero e indomito che crede nella giustizia e nella sovranità di un popolo. Chissà quanta rabbia ha pervaso i pensieri di Mya quando Aung è stata accusata di essere molle con il popolo prima e di corruzione dai suoi delatori e poi dalla comunità internazionale per aver taciuto di fronte all’esodo silenzioso e alla carneficina dei Rohingya, la minoranza islamica birmana che popola i campi profughi del Bangladesh dopo essere stata massacrata in patria dai soldati. Chissà che sensazione di smarrimento ha provato Mya quando i militari hanno nuovamente arrestato Aung, ormai settantacinquenne.

È una bella giornata il 9 febbraio. Alla fine della stagione fresca e senza pioggia. Il cielo è pulito e un leggero vento muove le fronde degli alberi che incorniciano il viale lungo il quale la folla si muove. Le nuvole solcano leggere il cielo e sotto di loro, sdraiato sul tetto di un edificio, un cecchino spara sulla folla. A caso, nel mucchio, per colpire indistintamente chi si ribella alla violenza del potere imposto. Un solo colpo e Mya si accascia tra le braccia del fratello che la soccorre inutilmente. 

La vita della ragazza finirà dieci giorni dopo dando vita ad un’onda infinita di proteste che partendo da Naypyidaw si estenderanno per tutto il paese, serpeggiando tra i giovani, gli universitari, le generazioni che vedono la vita come una fiamma di speranza che non può essere soffocata dalla sabbia della repressione. Anche oggi, mentre scrivo, le sommosse continuano: i ragazzi chiamano quella di oggi la “Rivoluzione dei cinque due”: 22/02/2021, con un’attenzione ai numeri tutta orientale, per ricordare e richiamare la “Giornata dei quattro otto”: 8/8/1988, quando altre proteste vennero soffocate nel sangue dai militari. 

Nulla è cambiato, la storia si ripete. 

Nel 1991, come racconta nel suo libro “Asia”, Tiziano Terzani, infiltratosi di nascosto nel paese per documentarne la qualità della vita, definiva le vittime della prima repressione golpista del Myanmar i “morti senza un fiore”. Morti la cui notizia non sarebbe uscita dai confini dello stato. Nel descrivere la nuova edilizia abitativa, fatta da palazzoni anonimi, diceva che i loro tetti erano  “luoghi dai quali i cecchini avrebbero sparato meglio sulla folla”. Mai una predizione fu più vera. Allora, come oggi, rabbia e paura erano a fior di pelle tra la popolazione. E nonostante tutto allora come oggi tra la gente dominava la speranza che un cambiamento venisse fuori, che il mondo non dimenticasse una popolazione che “appare e scompare”: appare nei brevi periodi di democrazia e viene oscurata e celata al resto del mondo quando i militari prendono il potere. 

Per Mya e per tutti i giovani come lei, ricordiamoci che il mondo non finisce dove finisce l’occidente.


Giacomo Di Maria


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