Bisogna ammetterlo. I gusti musicali dei ragazzi di oggi sono completamente differenti
da quelli della generazione precedente di cui fanno parte anche i nostri genitori. Una volta si ascoltavano canzoni che ora potremmo definire “pop” (dall’inglese popular, che significa popolare) mentre ora le classifiche sono tempestate di pezzi rap e “trap”.Per chi non lo sapesse, il rap (filone musicale underground nato
nell’America novecentesca) tra i due è il genere che esprime di più: il suo
scopo principale è, appunto, quello di comunicare un flusso di coscienza, un
episodio in particolare o riflessioni, dove l’artista ha libera scelta per il
linguaggio da utilizzare.
La trap, invece, è un genere abbastanza “recente” che dapprima ha spopolato in America e poi nel
resto del mondo (in Italia circa dal 2018); anche qui troviamo un testo senza
censure ma il più delle volte esso serve solo a dare più armonia e rendere la
canzone più orecchiabile: in poche parole il punto di forza della trap è la
sonorità.
Parlando di “sonorità” vorrei
esporvi un tema che in questi ultimi tempi compare sulla bocca di tutti:
l’Italia non ne ha una tutta sua. Ebbene sì, sono in molti a pensarlo. Alcuni
arrivano ,addirittura, a dire che la
nostra musica è soltanto una brutta copia di quella americana. Di ciò si parlava già anche anni orsono ma, in seguito ad un intervento di Salmo (noto
rapper co-fondatore di Machete), la questione è tornata in primo piano
nuovamente. Dopo di lui molti altri si sono esposti a riguardo.
Un altro fattore di cui si è parlato e sparlato molto è l’autotune che
non è nient’altro che uno strumento con il quale si correggono le imperfezioni
della voce: se il trapper canta un sol invece di un la, esso modificherà il
pitch affinché sia corretto. Alcuni sostengono che ciò sia sbagliato perché
rende la musica accessibile anche a chi non ha capacità canore. Altri, invece,
pensano che la musica dovrebbe essere aperta a chiunque abbia voglia di
cimentarsi in quest’arte; pensano inoltre che l’autotune possa essere usato
come un vero e proprio strumento musicale. A questa scuola di pensiero
appartengono, per esempio, tha Supreme (l’artista più ascoltato del 2020 secondo Spotify), che miscela la propria voce
con la base al fine di avere un prodotto ben bilanciato e molto armonioso, e
Sfera Ebbasta che fu uno dei primi ad introdurne l’uso in Italia.
Da un anno e mezzo a questa parte, inoltre, sta spopolando la professione
di “producer”, o “beat maker”, che consiste nel preparare le basi sulle quali i
(t)rapper dovranno esibirsi. Questo,
fortunatamente, ha fatto emergere molti
ragazzi, molti di loro veramente giovani (c’è anche chi deve ancora
compiere diciotto anni), che il più delle volte erano oscurati dalla figura del
cantante e che quindi non avevano né la credibilità né, tantomeno, la fama che
si meritavano. Questa rivoluzione ebbe inizio nel 2019 con l’uscita del singolo
“Holly e Benji” dove per la prima volta il nome del produttore era anteposto a
quello del rapper. Tra i migliori producer italiani troviamo Low Kidd, Sick
Luke, Duffy, Greg Willen, Young Miles (classe 2002) e il sopracitato tha
Supreme, che canta anche sopra i suoi “beat”.
Per quanto mi riguarda mi piace molto l’innovazione e pian piano mi sto
avvicinando sempre di più ad una concezione musicale a 360° con la quale riesco ad apprezzare sia un pezzo classico sia uno rap. Voi invece cosa ne pensate? Vorreste rianimare qualche vecchio genere o
vi piacciono quelli che ora sono in tendenza?
Filippo De Santis
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