giovedì 4 febbraio 2021

Trap e sonorità: si può ancora parlare di musica italiana?

 


Bisogna ammetterlo. I gusti musicali dei ragazzi di oggi sono completamente differenti

da quelli della generazione precedente di cui fanno parte anche i nostri genitori. Una volta si ascoltavano canzoni che ora potremmo definire “pop” (dall’inglese popular, che significa popolare) mentre ora le classifiche sono tempestate di pezzi rap e “trap”.

Per chi non lo sapesse, il rap (filone musicale underground nato nell’America novecentesca) tra i due è il genere che esprime di più: il suo scopo principale è, appunto, quello di comunicare un flusso di coscienza, un episodio in particolare o riflessioni, dove l’artista ha libera scelta per il linguaggio da utilizzare.   

La trap, invece, è un genere abbastanza “recente”  che dapprima ha spopolato in America e poi nel resto del mondo (in Italia circa dal 2018); anche qui troviamo un testo senza censure ma il più delle volte esso serve solo a dare più armonia e rendere la canzone più orecchiabile: in poche parole il punto di forza della trap è la sonorità.

Parlando di “sonorità”  vorrei esporvi un tema che in questi ultimi tempi compare sulla bocca di tutti: l’Italia non ne ha una tutta sua. Ebbene sì, sono in molti a pensarlo. Alcuni arrivano ,addirittura, a  dire che la nostra musica è soltanto una brutta copia di quella americana. Di ciò si parlava già anche anni orsono ma, in seguito ad un intervento di Salmo (noto rapper co-fondatore di Machete), la questione è tornata in primo piano nuovamente. Dopo di lui molti altri si sono esposti a riguardo.

Un altro fattore di cui si è parlato e sparlato molto è l’autotune che non è nient’altro che uno strumento con il quale si correggono le imperfezioni della voce: se il trapper canta un sol invece di un la, esso modificherà il pitch affinché sia corretto. Alcuni sostengono che ciò sia sbagliato perché rende la musica accessibile anche a chi non ha capacità canore. Altri, invece, pensano che la musica dovrebbe essere aperta a chiunque abbia voglia di cimentarsi in quest’arte; pensano inoltre che l’autotune possa essere usato come un vero e proprio strumento musicale. A questa scuola di pensiero appartengono, per esempio, tha Supreme (l’artista più ascoltato del 2020  secondo Spotify), che miscela la propria voce con la base al fine di avere un prodotto ben bilanciato e molto armonioso, e Sfera Ebbasta che fu uno dei primi ad introdurne l’uso in Italia.  

Da un anno e mezzo a questa parte, inoltre, sta spopolando la professione di “producer”, o “beat maker”, che consiste nel preparare le basi sulle quali i (t)rapper dovranno  esibirsi. Questo, fortunatamente, ha fatto emergere molti  ragazzi, molti di loro veramente giovani (c’è anche chi deve ancora compiere diciotto anni), che il più delle volte erano oscurati dalla figura del cantante e che quindi non avevano né la credibilità né, tantomeno, la fama che si meritavano. Questa rivoluzione ebbe inizio nel 2019 con l’uscita del singolo “Holly e Benji” dove per la prima volta il nome del produttore era anteposto a quello del rapper. Tra i migliori producer italiani troviamo Low Kidd, Sick Luke, Duffy, Greg Willen, Young Miles (classe 2002) e il sopracitato tha Supreme, che canta anche sopra i suoi “beat”.

Per quanto mi riguarda mi piace molto l’innovazione e pian piano mi sto avvicinando sempre di più ad una concezione musicale a 360° con la quale riesco ad apprezzare sia un pezzo classico sia uno rap. Voi invece cosa ne pensate?  Vorreste rianimare qualche vecchio genere o vi piacciono quelli che ora sono in tendenza?

 

Filippo De Santis

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