“Quando abbiamo smesso di insultarci: è stato quello il primo segnale della guerra”
Queste le parole, riferite agli albori del conflitto jugoslavo, del filosofo sloveno Slavoj Zizek. Tale affermazione potrebbe apparire strana, se non paradossale, soprattutto ad una persona plasmata, suo malgrado, dall’attuale cultura egemone del politicamente corretto. La tesi di Zizek, fondata sull’esperienza diretta, si risolve nell’idea che l’insulto, l’ironia, la presa in giro, se bidirezionali, siano il primo e più fondamentale passo verso la comprensione del proprio interlocutore. Evidenziare le piccolezze, le meschinità, le stupidità,
che caratterizzano in proporzioni simili ognuno di noi, è un mezzo poderoso di eliminazione delle barriere che ci separano dall’altro, e di conseguente riconoscimento reciproco nella coscienza comune della propria strutturale imperfezione. Eppure, Zizek non è certo il primo a sostenere questa posizione. Basti pensare alla ricostruzione che il personaggio di Guglielmo da Baskerville, ne “Il nome della rosa”, dà del teorizzato secondo libro della Poetica di Aristotele. Tale sezione perduta, forse mai scritta, del primo testo di critica letteraria autonoma della storia, secondo l’ipotesi di Eco e del suo Sherlock Holmes medievale, consiste essenzialmente in un elogio delle capacità della commedia di evidenziare le debolezze e le malvagità degli uomini, e nell’evidenziarle riderne, e nel riderne dissiparle. Grazie al riso l’uomo non ha più paura, non dei propri simili, non di sé stesso, non del male. E nel non avere paura è pienamente libero. L’ideologia odierna nega all’uomo questa possibilità. La satira, l’ironia, l’umorismo, devono essere attentamente vagliati perché non feriscano le “sensibilità” di nessun gruppo o persona specifica. Inoltre, attraverso la progressiva censura dell’immane complesso culturale che ha preceduto il presente, essa rende inattuabile un confronto veramente efficace con gli errori e gli orrori commessi, e rispecchiatisi nell’arte, nel nostro millenario passato. Le ultime vittime sono state tre cartoni Disney, ma prima di loro è toccato a Via col Vento, ed addirittura all’Odissea. Dove scandiamo un limite? Aspetteremo che Aristotele venga cancellato perché sessista, Petronio perché omofobo? O magari che si brucino in piazza copie delle Divina Commedia perché vi è contenuto un girone dedicato ai sodomiti? È evidente che la lotta alla discriminazione debba essere un valore primario di ogni civiltà umana che si rispetti, eppure, essa non può sostanziarsi in una censura acritica e idiotica del passato. Aristotele rimane un genio anche se due millenni e mezzo fa è stato sessista (pure schiavista, già che ci penso, per non parlare del suo maestro Platone…), la Divina Commedia rimane uno dei più grandi capolavori della storia nonostante tutto. Il fatto è semplice, e dovrebbe essere di facile comprensione per qualunque essere umano dotato di un minimo di intelligenza: non possiamo misurare la cultura del passato col metro del presente. Non dimentichiamo che gli ultimi che hanno tentato di rivedere il proprio canone letterario, soppesandolo rispetto ad un’ideologia contemporanea, e di purificarlo da elementi “negativi”, sono stati Adolf Hitler e Joseph Goebbels. Non mi pare siano modelli da seguire. Cosa sta avvenendo nella nostra società, perciò? Da una parte si fa sempre più forte e vasto il divieto di scherzare, di prendersi in giro, di fare ironia, dall’altra si rivede e modifica il patrimonio culturale della nostra civiltà attraverso la scure fascista della censura. A questo autoritarismo garantito dalla viltà di un sistema fatto di sola apparenza, di un capitalismo becero e mascherato che usa la nuova morale puritana “woke” per eliminare avversari politici e concorrenza economica, si aggiunge l’assoluto ed indiscutibile dominio del relativismo stupido, e del nichilismo da esso derivato. Il tutto è accompagnato da un travestimento di belle parole permeate dal campo semantico della sinistra e del liberalismo, ma completamente svuotate di ogni significato: ne risulta un effettivo e totale disinteresse per il problema sociale, taciuto, o accennato per correttezza, ma ucciso da un fukuyamaismo insufficiente e stupido. Qual è dunque la chimera del nostro tempo? Un mostro culturale intriso di metodi nazifascisti, linguaggio sessantottino, artigli nichilisti ed essenza anarcocapitalista. Il compito della nostra generazione è decapitarlo. Ma, molto probabilmente, ne saremo divorati senza muovere un dito: protestare sarebbe da maleducati.Tancredi Bendicenti
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