sabato 13 marzo 2021

Un torrente di letteratura dalla pittura



le voci dei marinai, che si chiamavano da un ponte all’altro. 

Jodie era seduta sulla spiaggia, a lanciare ciottoli verso il mare. Oliver riusciva sempre a farli rimbalzare, pensava, mentre ne sollevava un altro con la sua piccola mano, i suoi saltavano sempre. Ma Oliver non era lì, la mamma neanche, e nessuno le poteva insegnare a far saltare i sassi sulla superficie dell’acqua. Era da sola, buttata sulla spiaggia, a guardare i pesci scappare via ad ogni tonfo, ad ogni lancio. Si alzò in piedi per guardarli meglio, attenta a non toccare l’acqua fredda con i piedini nudi, per paura di ammalarsi come era successo allo zio, che era diventato sordo. Povero zietto, pensò, ora non può più sentirmi cantare. 

Le piaceva giocare a scappare dalle onde, a non farsi toccare dalla schiuma bianca, a lanciare piccolo urletti che riecheggiavano sull’alta parete rocciosa dietro di lei. E, mentre correva, le sembrava di gareggiare contro il vento, si immaginava di avere Oliver dietro pronto ad acchiapparla, e la mamma lontano che li guardava sorridente, mentre rattoppava le scarpe del fratello. E quindi correva, con le braccia tese, per volare come i gabbiani intorno a lei e poter toccare le soffici nuvole, di allontanarsi da Dover, sopra le teste di tutti e, nella magia del cielo, tornare dalla mamma. Le sembrava di poterla vedere, mentre correva e pensava di volare, mentre pensava di toccare con le sue nuove ali l’acqua, di avvicinarsi alle navi lontane, di ascoltare i marinai lontani discutere, attraversare il fumo della ciminiera e andare verso il sole. Mentre correva, Jodie sognava. Sognava di trovare l’orizzonte, di potersi sedere su una nuvola, appoggiare la testa sul seno della madre e sentire di nuovo il suo battito. 

Si fermò, quando si sentì il cuore in gola, veloce, mentre cercava di respirare. Si tappò le orecchie, per sentirne il ritmo: bum, bum, bum. Le ricordava le sere davanti al camino, a giocare con la padroncina ed il suo cane, la mamma che spazzava il grande salone della villa ed il babbo, in cucina insieme ad Oliver. 

Bum, bum, bum. 

Ancora, tornava il ricordo del fuoco, il fumo lontano della ciminiera: l’odore acre della cenere, l’odore della morte, delle urla lontane: a fuoco! A fuoco! Gridavano, scappavano. Si ricordava di essere stata presa, trascinata via. E quella fu l’ultima volta che li vide: un volto arrossato dalle fiamme, le dita annerite ed un urlo soffocato, incastrato in gola. E poi si ricordava il silenzio, i passi attuti in casa della zia, lo zio brontolante sul letto, le sere in cui sgattaiolava fuori della finestra per andare a giocare al mare, per lanciare le rocce come Oliver e volare verso l’orizzonte. 

Lontano, il fumo nero si disperdeva nel cielo in una macchia grigiastra, mischiandosi con il giallo delle nuvole.



Sale e Carbone

Il fumo ammorbava il vento, intrecciandosi tra i vuoti della divisa logora ma ordinata: riempiva i polmoni di carbone, facendosi respiro. Il capitano era in piedi sulla prua, col petto faticosamente gonfio, e lo sguardo puntato sulla scogliera. Pareva una sorta di monumento del proprio passato, imbiancato dal tempo e dalla forfora, appena costruito, ma già pronto a crollare. Ne avevano passate, insieme, lui e quella nave. Dalla Spagna al Nilo, dalle dune all’oceano, mano e timone si erano fusi, conosciuti, amati. Era stata lei, sì, la vera donna della sua vita. E Dio lo aveva trovato nel mare, tra i flutti profondi ed insondabili del blu che si fa nero, tra le onde anomale o nane, nei gabbiani e nei becchi colmi di pesci. Il sale gli si era insinuato tra le rughe. Sua figlia, Ellie, glielo aveva sempre detto: sai di sale, papà. Lo aspettava a Londra, bella e pallida come i ghiacci di Scozia, appena sposata e con in grembo un figlioletto, forse, magari, un maschio. Edward, lo avrebbero chiamato: come lui. E gliela avrebbe augurata, a quel nipote tanto atteso, una vita come la sua. Non gli era mancato niente. Non l’amore, non il vino, non l’avventura, non un motivo. L’unica cosa che lo angustiava, che si era piantata nel centro della sua gola ruvida di sigari, era quella ciminiera. Tanto sole, tanto vento, tanta tempesta, non potevano finire nel carbone. Non era giusto, non era bello. Eppure, per quanto si spostasse da una parte all’altra della prua, non riusciva ad evitare il fumo. Sembrava tentare di soffocarlo con mani invisibili e letali, inondandolo di sconfitte e meschinità. Era un odore identico a quello che aveva respirato, un anno prima, durante l’incendio della povera villa Granting. Chissà che fine aveva fatto quella bambina? Chissà. Il mostro metallico che li stava trainando cigolava con ogni lega percorsa, trangugiando il sudore dei marinai ed il combustibile che gli offrivano. Si chiedeva se loro, oltre quella coltre spessa e fangosa di aria sporca, avessero mai visto il mare. Se anche tra le loro rughe, di stanchezza e non di vecchiaia, si fosse fatto strada il sapore del sale. Se nell’infinità dell’Atlantico fossero stati confortati dall’abbraccio materno della solitudine. Non sapete che vi perdete, pensava. Non sapete cosa avete già perso. Così si tuffò, senza esitare, nuotando forte per non essere trascinato dalla corrente. Le braccia non lo avevano tradito. Incedevano regolari ed inesorabili verso la meta. Terra. Tornare, almeno un’ultima volta. E mentre bruciava la distanza che si frapponeva tra lui e la vecchiaia, scontrandosi con onde e mulinelli, vide una ragazza che giocava a lanciare i sassi, con gli occhi tristi. Gli ricordò sua figlia, ed una conversazione che aveva dimenticato. Non piangere Ellie, mamma è su, tra le nuvole, con gli albatri ed i gabbiani, ogni volta che senti il sole, pensa a lei. Il capitano si chiese se la luce si vedesse anche attraverso quel fumo, e che sapore avesse il carbone.

Flavia Gatti e Tancredi Bendicenti


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