martedì 27 aprile 2021

Blog&Scuola: Guerra e pace - Breve studio comparato delle posizioni kantiane ed hegeliane messe a confronto nell’ottica dell’unione europea



“Un solo esempio storico basterebbe a risolvere e dirimere in brevissimo tempo

con un piccolissimo accenno ai fondamenti giuridico-filosofici la diatriba che intercorre tra le diverse posizioni di Kant e di Hegel: la nascita dell’Unione Europea”. Con questa espressione si vuole indicare la presenza di un ente sovranazionale intergovernativo, che come indicato in “Zum ewigen Frieden” coopera con gli Stati che lo compongono per il mantenimento di una pace stabile e duratura (“feste und ewige”, per l’appunto). Se però innegabilmente il corso evolutivo delle vicende umane, che a partire dal rinnovato desiderio di raggiungere uno stabile periodo di non belligeranza si è sviluppato negli ultimi cinquant’anni, ha mostrato come l’ideale kantiano del “Weltbuergertum” , del cosmopolitismo europeo abbia trovato un proprio “fluorishing”, non è d’altra parte scontato che molte siano le affermazioni che in qualche modo potrebbero essere addotte a sfavore dell’ideale settecentesco di fratellanza tra gli individui ed a favore del più rinnovato interesse ottocentesco per la storia gloriosa dei popoli, identificata come inarrestabile evolversi dello spirito hegeliano.

La questione andrebbe analizzata di gran lunga più a fondo per dare, almeno schematicamente, una corretta e quanto meno accettabile linea di interpretazione al concetto proposto. Quel che il filosofo di Koenigsberg, a seguito del trattato franco-prussiano del 1795 propose fu, in poche parole, il progetto (Entwurf) di una creazione artificiale consistente in una federazione di Stati di tipo super-partes, ma rispettosa sempre dell’indipendenza e libertà dei suoi membri, in grado di garantire non una tregua qualsiasi scaturita dalla stipulazione di un trattato di pace, ma dalla più coraggiosa ed ardita volontà di difendere la solidarietà e la collaborazione reciproca a livello internazionale e sovranazionale. 

Ideale certamente lodevole quello consistente nella stesura di un articolo in grado di affermare la cooperazione tra i popoli nel rispetto delle loro stesse diversità. Ma come potrebbe mai tutto ciò non stridere con l’argomentazione kantiana di difesa e rispetto del diverso? In altre parole, quel “Weltbuergertum” deliziosamente analizzato in profondità da filosofi del calibro di Juergen Habermas, di Norberto Bobbio e, sia pure senza molto successo come dimostrato dagli eventi, anche da Neville Chamberlain, come potrebbe venire rispettato? E più in generale, questione forse ancora più scottante, il progetto, sia pure dichiaratamente non politico di Kant, consisterebbe in fin dei conti in un “Voelkerstaat” oppure in un “Voelkerbund”, ossia in una unione solo apparente nella quale vige il diritto e l’indipendenza internazionale, o piuttosto in una sorta di lega politica dove ogni Stato è suo malgrado, volente o nolente, subordinato al potere di un organismo sovranazionale intergovernativo ed autoritario? La questione si fa, sotto questo punto di vista, ancora più difficile da comprendere ed è certo che una risposta univoca non possa essere data. Eppure, con la dovuta accortezza nel fare paragoni tra due momenti storici radicalmente diversi tra loro, appare chiaro che se fosse giusta e si rivelasse veritiera la seconda possibile interpretazione, non a torto si potrebbe dire che il modello kantiano non sia poi così tanto meno autoritario ed aggressivo di quello hegeliano, paragonando a buon diritto, i singoli membri del sistema federale, del “Foederalistischer Bund” ad un’entità nella quale il cittadino o l’individuo fanno solo parte e vivono esclusivamente in funzione di una dimensione più ampia: lo Stato, per l’appunto. Non è del resto da escludere che il crescente nazionalismo derivato dagli avvenimenti della rivoluzione francese abbia almeno in parte, se pure in misura inferiore di quanto non abbia fatto la tempesta romantica nel secolo di Hegel, influenzato il filosofo di Koenigsberg. Ma senza scavare a fondo nei contesti e nelle dimensioni storiche che hanno determinato questo dibattito e questo scontro così vivido tra cosmopolitismo e nazionalismo e nella miriade di interpretazioni possibile a sostegno dell’una o dell’altra tesi, a qualche conclusione occorre pur giungere. L’idea kantiano si fonda indiscutibilmente sul bagaglio giusnaturalistico di stampo secentesco proveniente da Ugo Grozio e di antica matrice bodiniana. In “Grundlinien der Philosophie des Rechts” questo impianto è del tutto assente. La guerra viene infatti vista, a differenza di male assoluto come sosteneva Kant, come una sorta di processo, non sempre, ma a tratti di sicuro inevitabile per lo sviluppo nazionalistico di un popolo, e addirittura, se si vuole dare voce a delle lingue dichiaratamente anti-hegeliane, in vista dell’ideologia della supremazia, di quel “Wille zur Macht” col quale Elizabeth Nietzsche denigrerà il fratello, macchiando la sua reputazione per il resto della storia del pensiero filosofico tedesco. Il modello kantiano, influenzato anche dalle letture smithiane, si propone in tutti gli ambiti, a partire da quello economico di tipo liberista, di garantire la difesa dei diritti dei singoli Stati e dunque dei singoli cittadini. Non è così per Hegel, dove questa garanzia, ancora un antico retaggio della società civile, deve essere sorpassata e finalmente spodestata dal concetto di Stato etico, categoria questa che portò all’idea del sacrificio della patria e di quel “Dulce et decorum est pro patria mori” che sin dai tempi di Orazio ha portato soltanto lutti e rovine in un’Europa (per non dire in un mondo) così colpita da quello che Kant aveva solo trent’anni prima di Hegel definito “Schwaermerei”, ossia fanatismo, se si vuole ovviare ad una traduzione il meno possibile contaminata del termine. Ma tornando al concetto di “federazione” e di “unione tra nazioni” per impedire nuove guerre future, cos’è dopo tutto che impedirebbe al sogno kantiano di realizzarsi in modo stabile e cosa ha dunque determinato nel corso della storia la sua inefficacia? Lega delio-attica e peloponnesiaca, lega anseatica, lega di Smalcalda, Santa Alleanza, Società delle Nazioni? Cosa renderebbe invulnerabile e perfetta l’Unione Europea, quell’unione che Kant aveva solo filosoficamente progettato e mai messo in pratica dal punto di vista politico? Niente, assolutamente niente. La fragilità umana implica il riproporsi ciclico degli errori del passato secondo una concezione circolare e non tradizionalmente lineare, come attinto dal repertorio filosofico cristiano: “un eterno ritorno dell’errore”, se vogliamo. Il dubbio eterno, l’incertezza, la sconfitta, la speranza, la rinascita. Poi il baratro di nuovo, la guerra, la morte. E’ questo il ciclo che ha caratterizzato vichianamente la storia del passato ed è questo il motivo per cui vale la pena di credere nell’Unione Europea e di vedere nella sua, sia pur parziale antesignana kantiana di “Einigkeit”, almeno un barlume di speranza. A tutto ciò si oppone dialetticamente la visione hegeliana di guerra necessaria, di “sola igiene del mondo” come affermeranno in seguito i futuristi di Filippo Tommaso Marinetti. A tutto ciò si oppone il rancore antieuropeista derivato dalla miope e almeno parziale visione di unione tra Stati come carcere dello spirito nazionalistico dei popoli. A tutto ciò si oppone la questione la questione del diritto coloniale nei confronti di indigeni ed autoctoni, di popoli arretrati e per niente all’avanguardia e di dominio economico e culturale delle masse. A tutto ciò si oppone l’interventismo armato nelle contese e nelle dispute internazionali. A tutto ciò si oppone, ancora, la volontà di ripetere degli errori-orrori del passato e di voltare la faccia dall’altra parte. Il modello europeo necessita indubbiamente di numerosissime modificazioni, ma nonostante tutto rappresenta l’unica valida alternativa al bieco nazionalismo.   

“Un solo esempio storico basterebbe a risolvere e dirimere in brevissimo tempo con un piccolissimo accenno ai fondamenti giuridico-filosofici la diatriba che intercorre tra le diverse posizioni di Kant e di Hegel: l’avvento della Brexit”. È questo l’evento che segna il tramonto della virtù kantiana e la vittoria incombente della minaccia di deriva nazionalistica hegeliana. Al tempo stesso è però interessante notare come lo sviluppo di tendenze sempre più intransigenti a livello patriottico e dunque quello stesso fenomeno di schieramento delle masse a destra, giunga a tradire “in nuce” lo stesso concetto hegeliano che dichiara prontamente che i conflitti sono scaturiti esclusivamente da ragioni universali e non da meri interessi personali della classe dirigente al potere. Nulla di più falso. Se davvero è la storia a dover giudicare il pensiero hegeliano, secondo una critica che muove dalla filosofia della sinistra hegeliana, da Feuerbach a Marx, passando per Strauss, il filosofo di Stoccarda non sembra trovare alcun appiglio in grado di giustificare questa fondamentale parte del suo pensiero. Le guerre derivano, infatti, come dirà ampiamente la storia, dalla volontà dei potenti, di singoli o almeno di ristretti gruppi di politici, o di potentati economico-finanziari e quasi mai dalla volontà di tutti. Del resto è proprio questa una delle tesi menzionate negli articoli del trattato filosofico kantiano a sfavore della guerra. Si direbbe dunque che una guerra disinteressata, come sostiene Hegel, non esista e che anzi non vi sia nulla di più egoistico della guerra stessa, male che è desiderato soltanto dai potenti, che fa comodo ai monarchi e che con la sua incessante propaganda di spirito combattivo inibisce l’intelletto a favore delle mere pulsioni passionali, tanto aspramente criticate dai saggi filosofi dell’antichità.

La migliore medicina?

Una cosa soltanto: servirsi sempre della propria intelligenza. 

Alessandro D'Amico

“Habe Muth, dich deines eigenen Verstandes zu bedienen!”

“Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!”

(Abschnitt aus dem Wahlspruch der Aufklaerung/ Antwort nach der Frage:Was ist Aufklaerung?/I. Kant, 1784)


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