“Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit”. “Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”. Risuonano come un verdetto artistico incontestabile le parole brevi e spezzate, quasi fossero dei
cola virgiliani estratti da non so quale maestosa opera del poeta di Andes, e i versi di uno dei più grandi intellettuali del Romanticismo, per onorare, attraverso l’arte sapiente di Gustav Klimt, un altro grande genio dell’800: il celeberrimo compositore Ludwig Van Beethoven. Così scrive, con un tono misto tra il solenne e il nostalgico, il grande poeta Friedrich Schiller. Quel palazzetto di inestimabile ricchezza, la Secessionhaus, dorato ed argenteo a un sol tempo, rappresenta nel centro della cosmopolita Vienna al tramonto dell’ormai condannato impero austro-ungarico, avrebbe detto quasi mezzo secolo prima della sua realizzazione un altro grande poeta e romanziere francese di due secoli fa, Charles Baudelaire, il “santo scrigno” e il “sacro santuario” dell’arte contemporanea, un’arte che guarda al passato (Vergangenheit), ma anche al presente (Gegenwart) e che contempla anni e anni di inestimabile produzione artistica. Ma che cosa centra tutto questo con il tema del legame tra arte e filosofia e, più in generale, con l’importanza che la seconda ha conferito alla prima? Tutto. Dacché in quelle poche, schematiche e brevissime righe si cela l’intero pensiero artistico promosso da Schelling nella sua “Storia dell’idealismo trascendentale”, soprattutto se in questa si fa riferimento, tra le altre cose, alla sua originale e rivoluzionaria teoria dell’arte. È innegabile, va dato del resto per assodato, che nel pensiero filosofico occidentale si sono contrapposte due diverse visioni dell’arte e dell’artista: la prima è quella di un’arte che porta al mancato controllo delle passioni, delle più profonde sensazioni e sentimenti che ci fanno smarrire la “retta via” e che per questo ci condanna al peccato e alla deviazione dalla rettitudine e da un cammino di virtù, la seconda è antitetica a questa linea di pensiero e vede perciò nella sua essenza la catarsi, la purificazione da tutte quante le malevoli tentazioni o influssi negativi sull’individuo. È però allo stesso tempo ragionevole ed onesto guardare ed osservare attentamente questa contrapposizione, questo pòlemos tra forze opposte, avrebbe detto Eraclito, e notare accettando il dato di fatto, che l’idea di un’arte che racchiude in sé quel che nella realtà circostante è disgiunto, ha trionfato indubbiamente sulla sua svalutazione. L’arte unisce, L’arte rinnova. L’arte rappresenta il dionisiaco che c’è in noi, direbbe lo stesso Nietzsche. Da cosa lo vediamo e da cosa ricaviamo questa affermazione? Dai molti esempi chiarificatori che ci vengono offerti nella modernità dalla società complessa e raffinata nella quale viviamo e nella quale si concentra il succo delle nostre singole esistenze. La creatività. Diceva la mente del più grande scienziato di tutti i tempi, Albert Einstein, e mi permetto di definirlo così a dispetto di tutti i giudizi contraddittori che a lui possono essere rivolti, che la fantasia non ha confini al contrario della conoscenza ed è perciò senza limiti e barriere. Una frase senz’altro audace, che però raccoglie e condensa come in un turbinio ordinato, il senso della nostra tesi e di ciò che chiaramente e senza mezzi termini, vogliamo qui enunciare con serenità, ma con man ferma: l’arte è magica, perché ha il potere straordinario e sovraumano, che nessun’altra disciplina possiede, di unificare i contesti e le situazioni più disparate e a prima vista non conformi tra di loro in un unico, ordinato flusso di linee, colori e stilemi preziosissimo e ricercatissimo, come si potrebbe evincere dalla lettura di Mario de Micheli sul tema dell’Art Nouveau o delle avanguardie artistiche nate e sviluppatesi in Europa sul finire dell’800 e all’inizio del secolo scorso. Per meglio comprendere il cammino filosofico e il pensiero sviluppatosi riguardo la concezione dell’arte, quasi sempre trattata - ed è questo si può dire l’unico punto sul quale tutti i filosofi sono andati d’accordo dalle epoche passate sino a quelle più recenti e vicine a noi - nelle opere letterarie, è opportuno ordinare nel modo più sistematico possibile le varie tesi che man mano sono state espresse su questo tema così importante e di attualità così scottante. Arte o tèchne? E’ la prima vera domanda che ci viene in mente e, per dare man forte alla tesi che abbiamo sin qui espresso, sarebbe giusto e sensato elevare l’arte alla sua dignità di disciplina magistra delle conoscenze al pari della scienza. Non è stato così per molto tempo. Ma se già ai tempi di Platone e di Aristotele e prima di loro persino a quelli di Esiodo ed Omero ci si barcamenava costantemente tra la visione di un’arte come artigianato (tèchne), come di mera produzione materiale e dunque come creazione dal nulla di un’opera complessa, derivata dalla sapienza e dalla capacità del maestro, d’altra parte è assolutamente innegabile che la corrente opposta a questa concezione si basava fondamentalmente su un’idea di arte come ricettacolo delle passioni e dei sentimenti da esprimere non attraverso la potenza espressiva del linguaggio, ma per l’appunto, dell’arte visiva. La linea del pensiero greco di arte come catarsi viene, con l’avanzare della metafisica platonica ed aristotelica e dell’importanza che dall’iperuranio ha in poi acquisito definitivamente la concezione di mondo terreste, copia delle idee, e di mondo sopralunare come loco per l’appunto di quelle perfezioni, a scontrarsi con la ferma condanna di autori in ambito ellenistico, definiti da Callimaco “Telchini” e “non amici delle muse”. A far però fronte a queste critiche e da contraltare, potremmo dire a questa concezione, sarà proprio il poeta di Cirene, che con uno stile, quasi d’avanguardia, evidenzierà la giusta importanza che merita l’artista, inteso come creatore di un’opera magistrale, diversa, creativa, innovativa e soprattutto originale. Dal concetto di “unicum” irripetibile ed irriproducibile si sviluppa il grande cambiamento, la grande trasformazione dei paradigmi del passato provenienti dal mondo della classicità. Dal dibattito tra “arte come ars” e “arte come artigianato” di prodotti manifatturieri si perviene poi all’estensione del concetto durante le epoche dell’umanesimo e del rinascimento ed è qui per la prima volta viene legata inscindibilmente l’arte alla filosofia e alla storia del pensiero occidentale nelle varie epoche storiche. Se infatti nel Medioevo l’arte era vista soltanto come glorificazione delle figure mistiche e dunque come “imitatio Christi” in grado di rappresentare la via maestra per i pellegrini e i fedeli, e di ciò ce ne possiamo accorgere dalle opere di artisti come Giotto o Cimabue, l’artista comincia nel Rinascimento ad essere propriamente “faber”. Ma allora quale sarebbe la differenza tra il termine già impiegato di “technites” (artigiano) e “faber” (artigiano)? Due parole apparentemente identiche, che si traducono sia dal greco che dal latino, esattamente allo stesso modo. Una differenza nettissima. Un abisso. Due mondi contrapposti. Queste le immagini che ci dovrebbero evocare queste due parole. Ebbene sì, perché se si analizzano attentamente i contesti in cui questi due termini che sono stati impiegati, ci si può accorgere che mentre il termine greco indicava generalmente la figura dell’artigiano come si è tornati ad intenderla oggi, nella parola faber è racchiusa la possibilità in nuce e dunque la potenzialità aristotelica di trasformare in atto la creazione più elevata alla quale l’uomo può giungere: il disegno del proprio destino. “Quisque faber fortunae suae”. Ognuno è artefice del proprio modo di essere e della propria vita, un’espressione che, senza ombra di dubbio, possiede in sé dei significati e dei concetti incredibilmente moderni, che anticipano di quasi trecento anni il mito dell’uomo che si fa da solo e che si affida alle proprie forze senza bisogno di nient’altro: il “self-made man”, si direbbe ad oggi. E tuttavia, a partire dall’introduzione di concetti sofisticati e per la prima volta interamente codificati e ripresi dalle altre discipline scientifiche, come la matematica, l’algebra, la geometria e l’astronomia, nel panorama artistico e in special modo pittorico, e scultoreo del tempo, si comincia ad intravedere la minaccia della razionalità. Il doriforo di Policleto e il David michelangiolesco, la prospettiva architettonica di Vitruvio Pollione e le opere di Piero della Francesca. Tutto si fa ordine nell’arte. Tutto cambia secondo regole precise e geometricamente (Piero della Francesca era anche matematico) si evolve il linguaggio artistico e nell’ombra nasce una minaccia, quella minaccia che tre secoli dopo Nietzsche, il distruttore del pensiero ottocentesco, nonché profeta del Novecento, tenterà ad ogni costo di scongiurare, al punto di dedicare un’intera parte del suo pensiero filosofico e della sua produzione a questa tematica e problematicità. La razionalità, dunque. Il pensiero socratico. Il ragionamento logico. In una parola: l’apollineo. E’ davvero questa la grande sfida all’artista e al filosofo della modernità: capire a chi dare la precedenza e chi mettere più in risalto: la razionalità o l’artisticità? Non è affatto facile dare una risposta e tentare anche parzialmente di rispondere a un così grande interrogativo, ma è evidente che la decadenza e la corruzione dell’arte, per ricollegarci alla nostra tesi sopra citata di “arte come ricettacolo di spirito” e di “condensazione delle passioni umane”, siano avvenute a causa della progressiva socratizzazione conseguente al pensiero scientifico-positivista: un pensiero che soffoca la libera creazione e che, riducendo la filosofia e le altre discipline a mere ancillae scientiarum, esalta unicamente il pragmatismo e l’utilitarismo estremo di matrice benthiana. La distinzione tra apollineo e dionisiaco e la successiva esaltazione del primo a scapito del secondo rappresenta effettivamente una costante dell’evoluzione del pensiero umano, che sin dai tempi rinascimentali, e poi con l’illuminismo settecentesco, tocca il culmine, nonostante il tentativo kantiano di mettere criticamente dei paletti e dei limiti alla potenza della ragione, del Vernunft, della razionalizzazione della realtà secondo schemi fissi dettati dal pensiero scientifico, empirico e sperimentale. L’arte subisce dunque questo cambiamento e non è per nulla un caso che numerose correnti artistiche di questo secolo, il secolo della seconda rivoluzione industriale, si pongano in aperto contrasto con il mondo del commercio, del guadagno, dello sfruttamento, delle fabbriche e del capitale, come avrebbe sottolineato nella sua teoria del plusvalore lo stesso Marx. Un esempio che però fra i tanti potrebbe meglio rappresentare idealmente questa battaglia al materialismo-razionalistico imperante nel Vecchio Continente e nel Nuovo Mondo è di certo il preraffaellismo. Se infatti Nietzsche aveva criticato l’apollineo, come poi farà Mann, attraverso l’attacco al pensiero socratico e ai paradigmi euripidei, artisti come Dante Gabriel Rossetti e critici come John Ruskin o Walter Pater si imbattono nel tentativo audace, e forse a tratti testardo, di teorizzare una riscoperta dell’arte a partire dalle origini sino a quel Rinascimento che abbiamo detto essere stato l’origine dell’incombere e poi del prevalere del razionalismo sull’artisticità e dell’oggettivo sul soggettivo e con ciò la tomba, paradossalmente, della libera creatività. Giunti a questo punto, forse può apparire più chiaro ed evidente come la battaglia, se rapportata al tempo presente, sia stata nettissimamente vinta dalla spinta dionisiaca e come addirittura questa stracciante vittoria si sia tramutata in una sconfitta almeno parziale per le generazioni odierne, se si pensa all’utilizzo spesse volte esagerato e immoderato della fantasia e della creatività stessa. Si potrebbe a questo punto obiettare che l’arte potrebbe rappresentare soltanto una via per fuggire alla razionalità e che dunque non viva di vita propria, essendo sempre subordinata ad un altro ambito del pensiero umano. Non è così. L’arte, nell’evoluzione del pensiero moderno e contemporaneo, ha saputo sempre reagire ai cambiamenti determinati dai contesti e dagli avvenimenti storici. Seppur indubbiamente subordinata, come si è detto, o quanto meno in strettissima dipendenza nel Medioevo - e con questa definizione temporale non mi riferisco di certo agli ultimi 50 o 100 anni del ‘400 - dalla dottrina della Chiesa, l’arte ha saputo trovare una via autonoma proprio a partire dagli anni del Rinascimento e questo è stato ciò che le ha permesso di sconfiggere in ultima battuta l’avanzata del razionalismo. Il trionfo e con esso l’affermazione della concezione di arte come disciplina indipendente nei secoli, si cela, del resto, nello sviluppo intellettuale e letterario dell’ultimo secolo. Con il Decadentismo e, più in generale, con il motto gautieriano dell’ “art pour l’art” o, se vogliamo, dell’ “art for art’s sake”, come dice Wilde, si evidenzia e si teorizza la nuova concezione dell’arte come regina delle forme espressive e come padrona autonoma del proprio destino e dei propri contenuti. L’artista stesso, nuovo eletto e prescelto ad elevarsi dalla “bassezza del borghesuccio” pascoliano comune, si innalza al di sopra delle possibilità umane, parlando un linguaggio ai più incomprensibile, ricco di simboli, sinestesie, parole onomatopeiche, un linguaggio primitivo, una forma di pre-linguismo volto non più, come accadeva nelle epoche passate, a comunicare ma ad impressionare. E così, sulla scia del motto di Verlaine di “impero alla fine della decadenza”, si comprende come venga ripresa proprio da quel Romanticismo in cui si sviluppa la filosofia schellinghiana, la visione della vita intera come opera d’arte, dell’artista come creatore sublime e come genio dai più incompreso. Nelle poesie di John Keats il raggiungimento dell’Assoluto, così descritto da Schelling come l’unione della capacità e del talento dell’artista con la natura che lo circonda, è presente sotto il velo patinato di espressioni evocative e a tratti esoteriche, che richiamano il mistero, l’ignoto, il soprannaturale e soprattutto il pericoloso, in altre parole, ciò di cui non si è a conoscenza. Così si può tornare a quella definizione di Baudelaire di arte come “sacro santuario”, citata in precedenza, allo scopo di comprendere meglio il ruolo elitario dell’arte, arte che ormai con opere poetiche come lo “Spleen”, ha raggiunto quella dimensione aurea e sacrale, quasi sovrannaturale che alimenta l’idea di pittore maledetto e di poeta vate. L’arte si fa mistero, l’artista ha ormai perso la sua aureola e scagliandosi con veemenza contro tutte le mode conformistiche ed imperanti della società di massa, elabora la lingua di Dio o del Demonio, superando le possibilità cognitive umane e l’intelligibilità di fondo delle opere, aprendo le porte a quell’Ermete Trismegisto, la cui dottrina sempre dal Rinascimento era stata ripresa. L’arte deve esprimere se stessa, deve essere libera e deve poter rappresentare ciò che con altri mezzi non può essere adeguatamente comunicato. L’arte deve poter rappresentare l’Assoluto. L’arte deve simboleggiare la rinascita dell’umanità da difficoltà, come quella della pandemia. Colonne dorate, marmi luccicanti adornano la piccola ma incantevole Secessionhaus. I fregi di Klimt decorano le stanze e i luoghi più affascinanti della struttura, opera del grande Moser e del geniale Olbrich. Non si ode nulla, nessuno parla. Parla una cosa sola: l’arte, mentre sul fregio all’entrata, le parole sentenziose rivendicano con tutta la loro forza espressiva il posto che spetta all’arte. Perché in fondo deve essere così: “Der Zeit ihre Kunst ihre Freiheit”.Alessandro D'Amico
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