domenica 16 maggio 2021

Blog&Scuola: Domani sorgerà il sole?


 

Nell'affrontare il problema della causalità o casualità del mondo ci si pone sostanzialmente davanti alla questione fondamentale della

sua razionalità. Il concetto di logos greco, poi ereditato dalla teologia cristiana per mezzo del vangelo di Giovanni ("in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio"), è stato, e rimane, la base teoretica sulla quale si è sviluppata ed evoluta la civiltà occidentale. L'idea di una realtà determinata da un ordine preciso, costruito su una successione di cause ed effetti, ne è l'essenza. Tale ordine è stato condiviso dalle scuole filosofiche più varie, in età antica, moderna e medievale, in modo eccezionalmente egemone. Si è dovuti arrivare all'Ottocento, a filosofi come Nietzsche e Schopenhauer, per vederlo crollare sotto i colpi virulenti del caos. Eppure, di certo, l'approdo ad un'ontologia del disordine non è stato improvviso, né illogico: profonde sono le sue radici, ed autorevoli. Non vi è una differenza di fondo, noi riteniamo, tra la svolta in senso probabilistico della concezione dell'universo fisico, e il percorso verso il prospettivismo, il relativismo e l'esistenzialismo, incominciato con l'empirismo, verificatosi in ambito più propriamente filosofico. Analizziamone perciò le origini.

Il capostipite: Guglielmo da Occam

Con Occam ebbe inizio la tradizione inglese, che si è poi incarnata in filosofi come Hume, Locke, Russel. Egli fu uno dei primi pensatori a mettere in dubbio la validità del principio di causalità, negando, contemporaneamente, a Dio, l'attributo di "razionale": la realtà come la conosciamo, infatti, è una delle infinite che potrebbero essere state create, e la sua logica, i suoi principi, sono soltanto alcuni degli infiniti che sarebbero stati possibili. Dio non è soggetto alle leggi del pensiero, perché viene prima del pensiero, prima dell'uomo. Il suo piano, la sua creazione, il suo universo è inconoscibile nella sua essenza, ma solo nell'occhio di chi la osserva.

"Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus"

Questa è la citazione, parafrasata, di Bernardo di Cluny, dalla quale prende il titolo il romanzo di Umberto Eco "Il nome della rosa".

"La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo solo nudi nomi"

Eppure, essa potrebbe descrivere con un alto grado di precisione il nominalismo occamico, e la sua contrapposizione radicale al tomismo. La disputa sugli universali, d'altronde, è parallela e contigua a quella sulle cause. Negare l'esistenza di una forma insita nelle cose, ricondurre la loro riconoscibilità ad una somiglianza percepibile attraverso i sensi, significa spostare su un piano completamente induttivo la conoscenza che si ha del mondo. È probabile che questo oggetto, che assomiglia ad una rosa, sia una rosa. Non vi è certezza. Viene così disciolto il sinolo aristotelico, ed avviata la tradizione empirista.

La rivoluzione scientifica

Sulla scia di enormi mutamenti politici e culturali, di un'emancipazione dal tomismo, di un ritorno al platonismo e ad alcuni tratti dell'aristotelismo (più propriamente l'interesse per il mondo fisico), nel Seicento l'Europa affrontò una rivoluzione epocale. Galileo, Cartesio, Bacone, poi Newton, furono i massimi esponenti della nascita del metodo sperimentale e della trasformazione radicale del concetto di scienza. Uno degli strumenti teoretici ereditati dal medioevo fu il "rasoio di Occam" (non a caso si è parlato di capostipite) ovvero il principio metodologico consistente nel considerare più corretta la tesi più semplice, quella, cioè, che richiede il minor numero di enti metafisici per essere ritenuta coerente. Questo postulato non andava di certo in accordo con la fisica aristotelico-tolemaica, che per validarsi necessitava di un numero enorme di "intelligenze motrici".

Se Galileo, parlando della natura come di un "libro scritto in caratteri matematici", mantenne l'idea di una realtà ordinata da leggi direttamente impresse da Dio, e, soprattutto, comprensibili e formalizzabili in termini aderenti alla loro origine, per mezzo del linguaggio della matematica, Newton, invece, pur rimanendo strettamente legato alla necessità di una figura divina come archè, fu espressione di una nuova cultura che, proprio nel solco tracciato da Occam, vedeva l'analisi scientifica del mondo come non strutturale di esso, bensì conferitagli dalla mente umana. La matematica, per Newton, non è il linguaggio con il quale è scritto il "libro della natura" ma l'occhiale attraverso cui l'uomo riporta in simboli, più o meno fedeli al loro significante, leggi che trascendono le sue possibilità conoscitive. Newton è, d'altronde, espressione di quella incedente cultura empiristica che stava affondando le radici in un'Inghilterra sempre più borghese ed egemone.

Hume e Kant: l'apice

Immanuel Kant, nel descrivere il proprio incontro con la filosofia di Hume, parlò di "risveglio dal sonno dogmatico", ovvero della rivelazione teoretica della non oggettività del rapporto causa-effetto. Con Kant venne espressa nei termini più coerenti possibili l'idea di realtà che era stata proposta dall'empirismo. La relazione causa-effetto è una delle dodici categorie, un attributo che esiste solo nel soggetto conoscente. Non vi è libertà in ambito teoretico: all'uomo è posto il limite invalicabile della propria ragione. L'oggettività di una proposizione è determinata dalla sua aderenza alle verità, percepite e dimostrate per mezzo dei concetti puri, del soggetto universale. L'uomo mette l'acqua sul fuoco, e vede che, dopo una certa quantità di tempo, essa comincia a bollire. Ripete l'azione per innumerevoli volte: giunge, induttivamente, alla conclusione che tra l'aumento della temperatura dell'acqua ed il suo bollore viga un rapporto di causalità. Eppure, magari, domani, qualcuno ripeterà la stessa azione, negli stessi identici termini, alle stesse identiche condizioni ambientali, e l'acqua non bollirà. La legittimità di un giudizio sintetico a priori, la sua validità, pur essendo determinata rispetto al soggetto ed alla percezione che esso ha dell'oggetto (il fenomeno perciò) rimane completamente indeterminata ed indeterminabile rispetto all'essenza inconoscibile delle cose (il noumeno). La combinazione di questa situazione di contemporanea determinatezza e indeterminatezza fa sì che per l'uomo il vero possa essere, al massimo, probabile.

Hegel e la tradizione marxista

Con Hegel venne superato il problema della cosa-in-sé.

"Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale"

Il soggetto si fa oggetto: il logos, che era stato relegato e limitato da Kant a facoltà conoscitiva umana, ritorna, in Hegel, con un coerente e, mi sia lasciato dire, geniale ribaltamento dialettico, ad essere principio intero del reale. La triade assume perciò questo movimento:

a) ragione oggettiva trascendente (concezione prima greca, per esempio nella definizione che Aristotele dà di anima intellettiva, poi cristiana)

b) ragione soggettiva trascendentale (ragion pura Kantiana: si presti ovviamente attenzione alla profonda differenza tra trascendente e trascendentale: essa è trascendentale in quanto basata sui concetti puri, non è trascendente in quanto esistente prima e dopo l'uomo)

c) ragione oggettiva immanente (la concezione hegeliana di una ragione assoluta, creatrice e ordinatrice, la quale però non è un Dio fuori dalle cose, ma un principio nelle cose)

Hegel, non Nietzsche, ha ucciso Dio. Negando, de facto, la trascendenza, e immanentizzando la concezione trinitaria cristiana nel movimento logico della dialettica, ha demolito ciò che rimaneva dell'egemonia culturale cristiana in Europa.

Con l'idealismo assoluto, comunque, si supera il problema della cosa-in-sé, e si arriva alla concezione di una verità definibile solo come prodotto della storia, del processo inarrestabile del movimento triadico. Marx proseguì in questa rivoluzione teoretica, aggiungendo alla categoria della storia quella fondamentale e determinante dell'economia. In entrambi il vero è uguale all'intero. Eppure, il problema posto da Occam, Hume e Kant, non sparì, anzi.

Nietzsche

Non è un caso che uno dei grandi riferimenti di Nietzsche sia stato Schopenhauer, un kantiano "di ferro". L'idea di una realtà caotica non sarebbe potuta essere stata desunta né dall'idealismo assoluto, né dal marxismo, che concepiscono il mondo come un congegno che si muove verso un fine ultimo (lo stato etico nel primo caso, il comunismo nel secondo). Soltanto dal Kantismo, da una filosofia caratterizzata dal problema irrisolto della cosa in sé, Nietzsche poteva muovere coerentemente la sua demolizione sistematica della certezza occidentale. Egli, infatti, non è un irrazionalista, non rifiuta l'importanza o le possibilità del ragionare delle cose, ma si occupa più che altro di confutare la possibilità che ci sia un ordine nelle cose, un senso intrinseco ad esse. Qual è dunque, la sua sintesi? Da una parte accetta la sostanziale inconoscibilità dell'essenza del mondo ereditata da Kant per mezzo di Schopenhauer, dall'altra comprende la portata rivoluzionaria di quella tesi di Hegel secondo la quale "ogni filosofia è figlia del suo tempo" (mi scuso della parafrasi bruta). Il risultato è il nichilismo, il prospettivismo, il relativismo. Nulla è vero, autenticamente e pienamente vero: tutto è probabile, vero cioè per un certo individuo, in un certo momento storico. Nulla ha un senso assoluto, tutto ha un senso proprio e solamente proprio. Nulla è prodotto indiscutibile di una successione di cause, tutto è possibile in quanto tutto può essere configurato come reale. La trasposizione sul piano esistenziale della devalorizzazione del rapporto causa-effetto trova la propria incarnazione in Nietzsche. Non vi è certezza di niente: la ragione ci dà la facoltà di creare, ma non di ordinare.

Risvolti nel Novecento

Il crollo del positivismo, che aveva ridato, forzosamente, alla scienza la possibilità di porre le proprie proposizioni come vere e non probabili, aprì la strada alla decostruzione totale e sistematica del concetto di scienza che si era mantenuto fino a quel tempo. L'avvento della relatività e della fisica quantistica fece sì che concetti fondamentali che erano stati considerati indiscutibilmente veri per secoli venissero portati davanti al tribunale della ragione. Il principio di indeterminazione di Heisenberg enunciò l'impossibilità di essere contemporaneamente certi sia della posizione che della velocità di una particella: se conosciamo l'una non possiamo conoscere l'altra. Ad esso si aggiunsero, per esempio, i teoremi di incompletezza di Gödel:

1) in ogni sistema assiomatico è possibile formulare una proposizione che non può essere provata all'interno di quel sistema;

2) nessun sistema può essere dimostrato come coerente all'interno di sé stesso.

Wittgenstein arriverà a scrivere che è impossibile dire con certezza che nella giornata di domani sorgerà il sole: il fatto che sia sempre sorto non può validare la supposizione che sorga anche domani. Paradossi come quelli del "tacchino induttivista" rimarcarono la non legittimità di qualsiasi ragionamento induttivo: vi è differenza tra vero e probabile, e l'uomo può accedere solo al probabile.

Conclusione

Cosa possiamo desumere, dunque, da questa breve storia del concetto di probabilità? Ritengo che, in ultima analisi, il puro vero non sia raggiungibile. Il passaggio da un mondo delle cause "se-allora sempre" a quello della probabilità è speculare al rapporto tra ragione oggettiva e strumentale analizzato da Horkheimer. La trasformazione del vero nel probabile è contigua a quella del buono nell'utile. Vi è però una caratteristica fondante del concetto di probabilità che ci propone una via di uscita: essa è quantificabile. Perciò tra una proposizione assurda ed una ragionevole, nonostante entrambe siano possibili e dunque probabili, noi possiamo con chiarezza delineare quella che lo è di gran lunga maggiormente. Se prendiamo per esempio gli enunciati:

I)"I gatti parlano inglese",

II) "I gatti non parlano inglese",

avremo a favore della seconda una serie di prove dimostrate razionalmente, a favore della prima nessuna. Eppure, si potrebbe dire "I gatti parlano inglese, ma fanno in modo che gli umani non li ascoltino": questa proposizione non è confutabile, dunque non è scientifica, ma è comunque teoricamente, possibile e probabile, anche se a livello infinitesimale. Non possiamo provarne in modo definitivo la non veridicità. La nostra intelligenza, perciò, ci intima di attribuire alla I) il valore di falsa, alla II) di vera. Ritornando al discorso principale: come comportarsi? La soluzione migliore è considerare vere quelle proposizioni che sono più probabili, in funzione delle dimostrazioni che abbiamo di esse, false quelle che non sono dimostrabili, se non per vie assurde ed infondate. La coscienza del fatto che le nostre verità siano in fondo solo delle possibilità particolarmente probabili ci ricorda il valore sacro del dubbio, del non accettare mai nulla come assolutamente vero. L'essenza del filosofo, dello scienziato, dell'uomo sta nell'essere sempre pronto ad ammettere i propri errori, allorquando scoperte ed informazioni rivelino nuove verità.

Tancredi Bendicenti


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