lunedì 24 maggio 2021

Ceuta e la crisi globale

 

Si rincorrono in questi giorni le notizie sullo straordinario flusso migratorio che sta investendo le coste della città  di Ceuta, enclave della corona di Spagna in territorio

nord africano. “I migranti invadono Ceuta”, “Lo stato schiera l’esercito”, sono alcuni dei titoli che campeggiano sulle prime pagine dei giornali.

I motivi che spingono proprio ora fiumi di esseri umani a riversarsi nel mare di Ceuta per aggirare le doppie barriere che dividono sulla terraferma il territorio spagnolo da quello marocchino, sono senz’altro politici, ma sono dettati da una situazione umanitaria senza precedenti. Il COVID-19 ha messo in difficoltà le economie più solide del globo e catastroficamente in ginocchio quelle che già erano in condizioni difficili se non disperate. Genti provenienti dall’Africa sub-sahariana e marocchini stessi, si tuffano in mare sperando di trovare in quel pezzettino di Spagna una vita più degna di essere vissuta. Sanno che saranno sicuramente respinti, ma la loro fame di vita è più forte delle certezze, esattamente come forte era l’ardore con cui Ulisse  volle sfidare il mondo non ancora conosciuto in quello stesso mare.

Perché è della Setta dantesca che stiamo parlando, della stessa Ceuta; una città romantica, che ci riporta alla memoria “amor, arme e cavalieri”; appendice di terra che si protende gentilmente verso la costa spagnola con fare sinuoso, come una bandiera che garrisce dolcemente quando il vento soffia leggero; un vento di libertà, nonostante quell’ambito lembo di roccia e sabbia sia caduto, nel corso dei secoli, nelle mani dei cartaginesi, dei romani, dei visigoti, degli arabi e poi dei portoghesi e degli spagnoli. Un promontorio conteso e desiderato, che evoca un fortissimo significato simbolico, un ponte tra Africa e Europa e che, come ogni ponte, dovrebbe essere destinato ad unire e non a dividere, una porta verso l’accogliente culla del Mediterraneo per chi viene dalle acque severe dell’Atlantico, un varco, un passaggio.

La stessa città che se per l’Ulisse dantesco rappresentava un punto nautico che era necessario lasciarsi sulla sinistra per procedere verso il mare aperto inseguendo  la propria sete di conoscenza, la fame di esperienza, o per imperdonabile azzardo e che rappresentava, insomma,  un punto di non ritorno nella rotta verso l’ignoto, ora è un approdo sicuro dove attraccare con il proprio carico di speranze, sogni e illusioni. Una delle colonne d’Ercole ieri e, come ogni colonna, un solido sostegno a cui aggrapparsi quando la vita ti sta portando alla deriva, oggi. 

E se l’Ulisse che Dante ci propone nel del XXVI canto dell’Inferno sfida quei mari con un manipolo di uomini, con una “compagna picciola”, ora i gruppi di genti che azzardano l’ingresso in quello specchio di mare  sono divenute folle immense, e non navigano più  “solo con un legno”, ma si tuffano in acqua senza alcuna protezione, tenendo stretti a sé i loro beni più preziosi: i loro figli. Ed ecco, quindi, che la fotografia che è divenuta simbolo di questa crisi umanitaria, che mostra un militare della Guardia Civil che tiene saldamente e teneramente tra le mani il cucciolo d’uomo inerme e pallidissimo con la sua tutina a righe bianche e celesti, il suo cappellino e i suoi guantini rosa, assume un valore simbolico enorme, che affonda radici nella nostra cultura mediterranea di accoglienza e apertura  a quelle stesse genti che rappresentano noi stessi in modo speculare sull’altra sponda, dall’altra parte del mare. I genitori che hanno amorevolmente vestito quel fagottino lo volevano proteggere dal freddo e non immaginavano, ingenuamente, che avrebbero dovuto salvarlo dalle onde ghiacciate. Moderno Mosè, salvato dalle acque. Portatore di pace e speranza, vivo nonostante tutto, vivo nonostante fosse impossibile.

E questo simbolo di speranza, però, è contemporaneamente simbolo e frutto  di una crisi globale; il COVID-19 ha stravolto gli equilibri geopolitici dell’intero mondo, non curandosi dei confini tra stati e delle barriere in fili spinato e penetrando nei tessuti sociali di tutte le nazioni, di tutte le popolazioni. E questa crisi, come ha sottolineato il presidente Draghi il 22 maggio scorso intervenendo al Vertice mondiale sulla Sanità che si è tenuto a Roma alla presenza delle più alte cariche europee, non troverà soluzione finche la solidarietà tra popoli non diverrà fare comune; perché finché verranno vaccinati sistematicamente solo i cittadini dei paesi ricchi, il virus, che infierisce crudelmente su chi vive già in condizioni precarie, si propagherà, muterà e tornerà a bussare alle nostre porte con la sua falce e il suo mantello nero. Solo la cooperazione  internazionale, una massiva esportazione dei vaccini verso i paesi più poveri, la condivisione dei brevetti, porteranno a sconfiggere definitivamente il virus. 

Ed è storia già vissuta, narrazione di fatti già accaduti. All’inizio degli anni ‘50 un medico polacco naturalizzato statunitense di nome Albert Bruce  Sabin, benefattore dell’umanità, scelse di non brevettare il suo vaccino innovativo contro la poliomielite in modo che  potesse essere distribuito quasi gratuitamente alla popolazione mondiale. Il suo impegno filantropico e soprattutto la sua visione illuminata fecero si che una malattia che menomava centinaia di migliaia di persone ogni anno si riducesse fino quasi a scomparire; ad oggi si registrano meno di un migliaio di casi all’anno in tutto il mondo e si punta alla totale eradicazione di questo orribile morbo, traguardo raggiunto finora solo per il vaiolo e la peste bovina. Le organizzazioni come l’OMS o l’UNICEF sono mosse da uno spirito altruistico che va nella stessa direzione intrapresa dall’Europa e dal nostro Stato in questa pandemia: è una questione di responsabilità e di banale convenienza, perché non vi è sicurezza per nessuno di noi se non mettiamo in sicurezza l’intera popolazione mondiale.

Giacomo Di Maria

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