martedì 18 maggio 2021

La felicità



 Mi manca sentire il tuo respiro caldo sulla mia pelle. Mi manca sentire le tue dita

accarezzarmi dolcemente l’ombelico, i fianchi, la schiena. Mi manca sentire il tuo profumo la sera, quando mi addormento ed il mio cuscino odora ancora di te. Ho paura di averti consumato, di aver preso tutto quello che avevi da offrire e di averti svuotato: lasciato sul bordo della strada come una bottiglia di vino vuota, un pacchetto di sigarette accartocciato. Ho paura di aver lasciato che la mia forza avesse la meglio su di te: di averti schiacciato. Ho provato a non stancarmi, a non lasciare che la mia natura avesse la meglio su di me, su di te, su di noi. Eppure è successo, di nuovo, ancora. Io ci provo, davvero, ci provo. Credo sempre di riuscirci, di aver trovato la pace. Ma finisco per annegare e mi ritrovo sul fondo del bicchiere. Mi sono appesa alle tue labbra, per provare a non cadere, di nuovo. Ancora. Potresti recuperarmi con un cucchiaino, poggiarmi sul bordo ed io andrei giù, di nuovo. Ancora.

Mi chiedo perché, perché nella mia mente sia tutto così complicato: perché finisco sempre per odiarmi, per odiarvi, per rovinare qualsiasi bella cosa mi sia mai capitata. Perché continuo a pestare i fiori che umili crescono tra le fessure dell’asfalto: forti, resilienti. Cento anni per cercare di farsi strada da mille metri sotto al suolo, per fare timidamente capolino vicino al marciapiede: ed in un secondo sono spariti, sotto la punta della mia scarpa, distrutti. Come te, come me, quando la punta della scarpa decide di calpestarmi. E mi esaurisco, divento un’insignificante macchiolina nera sul pavimento, ed il mondo continua a girare, la vita continua il suo corso. E finirò nel dimenticatoio. L’oblio. Tocca a tutti, perché non a me? Siamo destinati a finire in quell’enorme buco nero e a farci seguire da tutta l’umanità, e quando anche l’ultimo di noi se ne sarà andato: allora sarà tutto dimenticato? E quando anche tu sarai sparito, ti ricorderai ancora di quando mi accarezzavi l’ombelico, i fianchi e la schiena? Di come lasciavi l’odore di fumo sulla mia coperta sgualcita e la finestra aperta dopo essere andato via? E ti ricorderai del mio sguardo sulla tua nuca, di quando ti giravi per guardarmi ed i nostri occhi si incrociavano? E di come non c’era imbarazzo, solo un piccolo sorriso, e la vita continuava. E la vita continuava. I secondi passavano, i minuti scorrevano, le ore giravano lentamente su quel maledetto orologio e la giornata ricominciava ed il giorno dopo, di nuovo: te lo ricordi il mio sguardo sulla tua nuca? Il mio cuore non perdeva battiti quando stava con te, quando ci poggiavi la mano sopra e delicatamente mi scostavi un ciuffo di capelli da davanti agli occhi. Il mio cuore non accelerava, quando mi prendevi dai fianchi e mi facevi roteare. Il mio cuore continuava per la sua strada: come un metronomo, preciso, scandiva gli attimi; deciso. Eppure la mia mente annebbiata notava soltanto i tuoi occhi e le tua dita, i tuoi gesti, i tuoi capelli. Ti ricordi quando te li tagliai? Sul pavimento del mio bagno cadevano ciocche intere, e tu ridevi. Ed io ridevo. E per un secondo tutte le mie preoccupazioni, tutte le mie ansie, tutte le cose che mi tenevo dentro per paura di far uscire il mostro che in realtà sapevo di essere, sparivano. E mi sentivo leggera: mi sentivo di poter camminare sopra le nuvole, sopra il cielo e le stelle e che tutto finalmente potesse tornare al suo posto. Mi sentivo completa. Perfettamente a casa.

A casa.

Poi è sparita anche quell’illusione, come se avessi dato fuoco ai fragili muri di legno che ci tenevano in piedi, insieme, io contro il mondo intero e tu che da lontano mi guardavi e mi davi la forza di fare un passo: avanti, ancora uno. E poi è crollato. Tutto quello che vedevo, tutto quello che sentivo, che pensavo di provare. È crollato. Sei finito nel mio dimenticatoio, nel mio buco nero, e mi fa così male averti lasciato andare, mi fa così male averti lasciato diventare un'altra persona nella lista degli sconosciuti. Pensavo di amarti, davvero. Pensavo che mi avresti resa migliore. Forse per un periodo lo sono stata. Poi è arrivata quella lettera, pensavo fossi tu. Per un secondo, ho pensato fossi tu. E quando la verità è arrivata, veloce come un treno, pesante come un macigno, mi sono sentita schiacciata. Era un altro. Un altro. Avrebbe fatto la fine di quelli prima di lui, allontanati al minimo cenno di avvicinarsi. Allontanati per sempre, con il pretesto di farlo per non farli soffrire quando in realtà l’unica persona che sto cercando di proteggere sono io. Non mi importa degli altri. Non mi è mai importato. Faccio finta di interessarmi, di provare empatia. Eppure la mia considerazione degli altri si ferma alle masse: a qualcuno che urla perché non respira, ad una donna che ha deciso di rompere il silenzio. Si ferma a quelli lontani da me. Chiunque mi si avvicini, poi, fa la fine di quelli prima di loro: lontani, dimenticati. Spazzati via da un mio soffio. Mi odio, mi odio per questo. Mi odio per aver aperto la lettera, mi odio per aver sperato che fossi tu. Mi odio per averti cacciato e per non essermi resa conto che a mantenere viva quell’illusione di vita, di amore, di gioia non eri tu, ma io. Ero io. Io che mi illudevo, io che volevo e che desideravo. Io che stavo provando a lasciarmi andare e che con la mente annebbiata vedevo cose che non c’erano, pensando di aver trovato la felicità. La felicità.

Flavia Gatti


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