mercoledì 12 maggio 2021

Un abbraccio eterno

 



Roma, 1996

Emma stava seduta, davanti a quella pietra inerme, circondata da pietre altrettanto inermi. Il suo pianto ininterrotto usciva strozzato dal suo corpo rigido. Nessun suono lo avrebbe

fermato, nessun conforto avrebbe attenuato le sue grida. Quei singhiozzi erano talmente costanti da confondersi ormai con il battito del suo cuore. La terra sotto di lei la inghiottiva sempre più, o almeno così avrebbe sperato. Desiderava sprofondare in quelle sabbie mobili, per riabbracciare il corpicino freddo di Lei.  Il suo nome era continuamente scalfito nella sua anima, ma non poteva pronunciarlo, o tantomeno pensarlo. Eppure lo vedeva, su quella pietra, accanto a una corona di fiori. Il tempo si cristallizzava mentre Emma si tuffava nei ricordi per non vedere il suo presente. Il viaggio di ritorno da quei momenti a quel cimitero, dove avrebbe voluto essere coperta dalla terra, era insostenibile. Non riusciva a non pensare al Suo corpo, privo di sangue. L’avevano uccisa, come iniettandole del veleno. Quel sangue sporco l’aveva uccisa.

Si trascinava fino alla fermata dell’autobus, senza lucidità, priva di sensi. Sentiva il suo solco scavato di fronte a quella pietra, ma il suo corpo era già sui sedili infeltriti dell’autobus. 



Roma, 2004

Emma tirava un sospiro di sollievo per l’ultimo faldone archiviato. Pensava a cosa avrebbe preparato per cena. Ed ecco che quel tonfo inconfondibile le risuonava nelle orecchie. Di fronte a lei un’altra cartella strabordante di fogli messi alla rinfusa. A volte pensava che Santucci glieli mischiasse apposta, per quella volta che rifiutò di prendersi una birra insieme. Con un altro sospiro, stavolta di seccatura, Emma sistemava con una rapidità incredibile quei fogli mischiati. Le sue dita ossute si muovevano velocissime, finché una semplice intestazione fece allontanare dalla mente di Emma il pensiero della cena. “Gruppo Marcucci”. Scorreva le dita stavolta tremanti e nervose e leggeva “reato di epidemia colposa per prescrizione dei termini”. Il suo cuore aveva smesso di battere leggendo, come se il suo corpo non fosse in grado di fare entrambi. Così chiuse la cartellina con uno spasmo: solo per tornare a respirare. Su questa era stampato con l’inchiostro nero la sigla “archiviato”. Quella sigla la vedeva tutti i giorni, e quotidianamente le sfiorava il pensiero che quei processi riguardassero persone come lei.  Stavolta quel timbro lo sentiva forgiare incandescente la sua anima. Tornò a quel cimitero, al Suo nome. Sentiva il suo corpo di nuovo in quel solco. Desiderava ancora sprofondarci, per quell’abbraccio eterno. 


(…)


I mesi passavano e ogni giorno sperava di arrivare a fine giornata pensando alla cena. Eppure ogni momento di silenzio, di distrazione, la riportavano in quel posto. Nella sua mente non aveva neanche più un nome; era diventato un’area della sua coscienza, un incubo dal quale avrebbe voluto svegliarsi. Aveva deciso che l’unico modo per interrompere quel sogno cristallizzato nel tempo era tornare lì. Viaggiava su quei sedili, che ricordava pungerle le cosce lisce. Stavolta erano di fredda plastica, ma le provocavano comunque un turbamento inspiegabile. Cosa successe dopo non lo ricordava. Come calandosi nel sonno si ritrovò improvvisamente seduta in quel solco che sembrava attenderla da anni. Voleva svegliarsi, tornare a respirare. Sentì una mano sfiorarle le dita in preda alle convulsioni. Incontrando quello sguardo le dita gelide si sciolsero per un attimo. Era Suo fratello, che la strinse in un abbraccio tenerissimo. Il calore tornava timidamente nel suo corpo, Emma si svegliava singhiozzando da quel sogno. Insieme ricordavano Lei. Stavolta il passato la commuoveva, e il presente la feriva ugualmente. Ma in lei qualcosa di nuovo, di inspiegabile scioglieva il nodo che ogni giorno la svegliava singhiozzando. Salutavano la pietra con su scritto il nome di Carlotta. Prima di andare lui la strinse forte, Emma sprofondava finalmente in quell’abbraccio eterno. 

Eugenia Elifani


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