domenica 6 giugno 2021

Nel cassetto di un coordinatore



 Delle cose penultime e di quello che manca per chiudere il cerchio

La prima volta che ho letto il mio nome tra le mura del De Merode, era appiccicato sulla porta a vetri di un’aula al secondo piano dell’istituto da cui si intravvedeva il profilo di Villa Medici. Quell’aula

l’avevo scoperta per caso, durante il primo giro di perlustrazione tra i corridoi che poi avrei riconosciuto come molto familiari, ma che in quel momento per me lo erano molto meno che per voi. La targhetta piccola, sotto una targhetta più spessa che indicava la classe che quell’aula avrebbe ospitato, il Terzo scientifico B, recava la scritta “Coordinatore: Marco Moro”. Era il 4 o il 5 settembre del 2018. 


La mia esperienza al De Merode cominciava con l’impronta del vostro marchio. E il vostro cammino nel triennio iniziava all’ombra del mio nome. Perché il marchio è come un simbolo che allo stesso tempo tiene insieme il marchiante e il marchiato, il positivo e il negativo, l’ombra e la luce, l’alba dentro all’imbrunire.

Il vostro marchio — pardon! il nostro marchio — me lo rappresento così: come una specie di cerchio, la cui linea di demarcazione non chiude la circonferenza. È quello che manca: affinché il primo giorno del triennio combaci con l’ultimo, affinché la prima campanella risuoni con l’ultima. La figura della mancanza è lo spazio che si può riempire, è il riflesso della possibilità. 


Quello spazio vuoto è il momento che precede l’ultimo, è la penultima ora del penultimo giorno: è la mia foto sull'annuario mai scattata nel mio giorno libero, è la vostra risposta spesso silenziosa e non sempre sollecita al dovere; è la mia fermezza mai troppo pronunciata per drizzarvi la schiena, è la pagina bianca degli appunti di molti di voi; è il mio sforzo mal riuscito di divertirvi — perché non amo la giocoleria (di kahoot!, che è la forma di intrattenimento più avanzata che la storia o la filosofia possano permettersi, ne abbiamo fatto uno soltanto), i fuochi d’artificio mi hanno sempre fatto paura, come gli youtuber che ho provato solo a scimmiottare con malcelata inadeguatezza, è la serie di film che non avete mai voluto guardare — perché il tempo libero è mio e lo gestisco io; quello spazio vuoto, quel penultimo tratto che manca è la briglia sciolta -- o quasi -- dei compiti assegnati sempre con la consapevolezza che difficilmente lo avreste fatto (soprattutto qualcuno di voi); è il buco del 30 aprile 2019 tra le vostre stories di quella gita ad Anagni poco instagrammabile. 


Ma è anche, quello spazio vuoto, il varco che si apre tra l’interrogativo “quanto vale se lo faccio?” e l'esclamativo “non mi interessa!”; è il passo che separa la sensazione “che palle, adesso ho due ore in terzo b” dalla sensazione “per fortuna oggi ho due ore in quinto b”.


Quello spazio vuoto, quello che manca per chiudere il cerchio è il fossato scavato dalla questione “perché sto qui?”, lo stesso solco nel quale si perde ciò che separa la domanda “chi sono?” dalla domanda “chi sarò?”, alla quale non sarà forse mai possibile dare un’ultima risposta, ma di cui possiamo azzardare una penultima parola.


Prima del vuoto, il primo giorno di scuola, la prima ora, anzi la vigilia della prima ora: l’adunata, l’inno — che imbarazzo! l’avete capito, sono uno di quegli italiani che nel 2006, anche con il crociato appena operato, il primo, il destro, è sceso in strada a festeggiare, ma non chiedetegli di cantare l’inno nazionale, che imbarazzo! Uno di quegli italiani che Bella, ciao!, ma la patria proprio no, Povera patria (per citare un altro memorabile pezzo di Battiato) — imbarazzo che si aggiunge all’imbarazzo delle prime volte, dei primi sguardi indagatori e scrutatori. -- È giovane, si intorta facile -- Salvo poi scoprire che per dimostrare di aver studiato Aristotele non basta dire “metafisica, dal greco metà tà physikà”, ma devi mettere insieme metafisica, logica, fisica; oppure che il medioevo non è un millennio da sintetizzare nella formula “tempi bui” ma spiegare perché per Le Goff il medioevo è luminoso; oppure che un secolo non dura cento anni, e che non c’è niente di più profondo di un “secolo breve”. 

Prima del vuoto, la meccanica un po’ impacciata delle prime comunicazioni formali, salvo poi scoprire che durante l’assemblea di classe, con il professore presente, si può anche fare la lista della spese di sostanze più o meno lecite per i cento giorni che non sarebbero mai stati festeggiati.   

Prima del vuoto, anche per chi sta in testa alla fila, senza la necessaria distanza fisica, ma la opportuna distanza istituzionale, la prima volta ha il gusto acido e dolce di un gelato al limone, dolce un po’ salato di un gelato al cioccolato.


Ma, dopotutto, anche le penultime volte hanno lo stesso sapore, solo che ci hai fatto l'abitudine e anche da grande, quando non lo diresti mai, o non saresti più disposto a dirlo, anche il limone e il cioccolato stanno bene insieme. E magari non sarà l’accoppiamento definitivo, l’ultimo gelato che mangeresti nella vita, ma magari, perché no, il penultimo.




Fiuggi, 3 giugno 2021                    prof. Marco Moro

            per il 5SCB 2020-2021

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