sabato 2 ottobre 2021

Afghanistan: il fallimento della strategia del controllo


 Grafica di Alessia Zhang

Poche ora fa il Presidente Draghi ha annunciato un G20 straordinario sull’Afghanistan che si terrà il 12 ottobre. Quello che è successo e sta succedendo in quel paese stravolto da decenni di sofferenza  e violenze lo conosciamo tutti, ma forse non sappiamo

esattamente come siamo arrivati a questa crisi globale che minaccia l’intero sistema economico e sociale mondiale causato dal fallimento della strategia del controllo operata dall’Occidente stesso che ha dimenticato di parlare il linguaggio della nostra comune umanità causando, di fatto, il collasso degli stessi propri valori.

L’Afghanistan, è noto,  è un paese martoriato, devastato da anni di guerra e attentati sanguinari tra i più violenti  che si perpetrano ancora oggi e oggi come mai prima lacerano la memoria del medio oriente e la coscienza del mondo occidentale. Da decenni il popolo afghano combatte ogni giorno per la libertà, per la vita, per ottenere (quasi sempre) e mantenere (per pochi periodi nella sua storia moderna), quelli che sono i diritti fondamentali di ogni essere umano. Per quasi un paio di decenni, quelli di fatto in cui la presenza dei contingenti NATO dell'ISAF  stabilitisi nel paese in seguito all’invasone americana succeduta agli attentati dell’11 settembre con l’obiettivo di eradicare Al Qaeda, l’Afghanistan ritrovò una serenità apparente e venne dato inizio ad una significativa serie di riforme sociali e democratiche che diedero una speranza ancora più apparente ad una popolazione stremata da un decennio di occupazione sovietica prima e dal regime dei talebani poi. Un popolo in perenne stravolgimento, quello afghano; perché le grandi riforme sociali guidate dall’occupazione occidentale, erano iniziate già nel 1978 con la prima repubblica Afghana seguita alla monarchia e poi brutalmente interrotte dall’arrivo dei Talebani. In questo periodo dorato di luce democratica ad esempio, le terre vennero ridistribuite ai contadini, venne bandita l’usura, vennero regolati i prezzi dei beni primari, stabilizzati i servizi sociali garantendoli a tutti a prescindere da ceto, etnia o genere, venne riconosciuto il diritto di voto alle donne, vennero legalizzati i sindacati, vietati i matrimoni che vedevano protagoniste le spose-bambine, vennero abolite le leggi religiose, messi al bando i tribunali tribali e l’istruzione divenne pubblica e obbligatoria per maschi e femmine. Le donne potevano circolare liberamente vestite all’occidentale e non era anormale vedere ragazze in minigonna mentre camminavano da sole per le strade di Kabul fumando magari una sigaretta.

Quanto è lontana questa visione dell’Afghanistan da quella che conosciamo ora e che siamo stati abituati a osservare negli ultimi quarant’anni? Burqa azzurri, coltivatori d’oppio ed esecuzioni pubbliche, questo è per noi l’Afghanistan. 

Le rivoluzionarie e stravolgenti riforme della Prima Repubblica videro il tempo di un’alba e di un tramonto: fu un attimo e talebani e mujaheddin, imbracciate le armi abbandonate dall’Armata Rossa, fecero sprofondare il paese in un medioevo buio la cui storia moderna è nota.

E ora ci siamo di nuovo.

Con la firma dell'accordo di Doha del 2020, ratificato dalla fazione afghana dei Talebani e dagli Stati Uniti d'America dell’era Trump,  fu programmato il progressivo e totale  ritiro delle forze armate statunitensi dal Paese entro il 31 agosto del 2021.

Quello che è successo da quella data in poi è sotto gli occhi di tutti. 

Il popolo afghano è stato sacrificato nuovamente in nome degli interessi politici, degli equilibri internazionali, del benessere dell’occidente e degli USA. Meglio un governo talebano che controlla e combatte in loco il riaffacciarsi di Al Qaeda che migliaia di soldati della coalizione morti tra le distese di roccia afghane che tolgono credibilità e voti ai governi di questa nostra parte del globo. Con buona pace della popolazione, che è stata abbandonata ancora una volta in balia del terrore sul baratro del precipizio. L’esistenza di milioni di bambini, donne, uomini che avevano sperato di poter vivere dignitosamente è stata stravolta nuovamente. Ma il popolo afghano è avvezzo al cambiamento drastico e repentino, alla sofferenza, alla mancanza di libertà: è resiliente. 

Dai corrispondenti delle poche testate giornalistiche che ancora resistono a Kabul arrivano notizie su come e quanto velocemente donne e uomini si stiano adattando alla nuova esistenza con l’unico obiettivo che è quello di sopravvivere. Nel souk di Kabul sono spariti jeans e abiti occidentali e i commercianti si sono velocemente convertiti alla vendita di abiti locali e burqa. I barbieri  hanno bandito tagli occidentali e visi glabri e promuovono acconciature tradizionali e barbe curate; i centri estetici, che pare facessero affari d’oro vista la grande attenzione delle donne medio orientali per la cura del viso e del corpo, ora hanno chiuso i battenti nell’attesa di riconvertire la propria attività in qualcosa di accettato dalle leggi coraniche che il governo talebano ha reintrodotto in modo rigido e intransigente. Cercano di diventare invisibili, gli afghani. Uomini e donne. I tanti che non sono riusciti a salire su qualche volo della speranza tentano disperatamente di passare inosservati, non facendo nulla che possa portare la loro esistenza giornaliera all’attenzione di chi li controlla, li osserva, li spia in attesa di un passo falso le cui conseguenze sarebbero drammatiche.

Storia già vista, racconti già fatti e che sembrano riecheggiare dall’altra parte del confine afghano, quello con l’Iran dell’era Carter, della cacciata dello Scià di Persia nel 1979 e dell’avvento dei decenni di governo religioso degli Ayatollah. 

Di nuovo una contrapposizione stridente e violenta dell’Occidente contro l’oriente, degli USA contro l’Islam radicale; di nuovo un popolo disperato che bussa alla porta di chiunque si trovi in condizione migliore della sua, di nuovo un’emergenza umanitaria di dimensioni bibliche, campi profughi sterminati, bambini che soffrono e che muoiono di fronte ad un’opinione pubblica la cui attenzione, probabilmente, andrà scemando di giorno in giorno, di ora in ora, finché tutto non diverrà prima normale, poi lontano e altro da noi e poi, alla fine,  invisibile ai nostri occhi.

Giacomo Di Maria


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