domenica 3 ottobre 2021

Il Ponte di Ferro


La sera di sabato il Ponte dell’Industria, meglio noto ai romani come “Ponte di Ferro”,

è stato aggredito dalle fiamme che l’hanno trasformato da “simbolo della romanità” a icona della misera decadenza di una città abulica. Questo rogo è stato la nostra “Notre Dame”. Un monumento fortemente legato all’identità di una città è svanito di nuovo in una nuvola di fumo e cenere.

Era un pezzo della storia dell’Italia unita, quel ponte. Voluto fortemente da Papa Pio IX prima della presa di Roma, fu comunque da lui inaugurato nel 1863. Il suo scopo era quello di permettere ai treni merci che venivano da Civitavecchia (e che a loro volta lì caricavano il contenuto delle grandi navi che vi approdavano) di raggiungere velocemente il nuovo e modernissimo scalo ferroviario di Roma Termini, inaugurato anch’esso nel 1863 ed allora noto come Stazione Centrale delle ferrovie Romane. Simbolo della modernità in anni che videro la nostra città protagonista di un passaggio epocale dalla Roma dei Papi alla Roma della monarchia piemontese, alla cui popolazione venne chiesto di adeguarsi a stili di vita, ritmi e priorità totalmente diverse da quelle a cui era avvezza.

La citta dei Papi, infatti, era lassamente adagiata sulle sponde del biondo Tevere, chiusa al resto del mondo, forte della sua storia, letargica e indolente ai cambiamenti.

Quel merletto di ferro e ghisa che all’improvviso oltrepassò il Fiume fu invece la nostra Tour Eiffel; stesso il criterio di costruzione, stessi i materiali, ma differente in ciò che rappresentò se guardato con gli occhi della storia: mentre la “torre di ferro francese” (che sarebbe stata inaugurata dopo 26 anni) avrebbe puntato in alto a commemorare, sì, i cento anni dalla Rivoluzione, ma anche la “grandeur” d’oltralpe, il Nostro Ponte celebrava invece l’unione, la connessione e l’inevitabile continuità tra la tradizione e il progresso, tra la civiltà sabauda e lo scaltro istinto di sopravvivenza di un popolo che da duemila anni era capace di mutare come un camaleonte pur rimanendo sempre lo stesso.

Questo monumento di metallo, che si stagliava gentile sul panorama della campagna romana non coprendone la vista, ornava come un merletto la cornice campestre che ospitava poco lontano da lì un altro simbolo di Roma sud, la Basilica di San Paolo fuori le Mura. La tradizione della Roma cattolica conviveva con il progresso e l’innovazione, aprendo la città al mondo. Divenuto carrabile poche decine di anni dopo la sua inaugurazione, il Ponte di Ferro è entrato piano piano a far parte di un tessuto urbano che è cresciuto intorno a lui e si è antropizzato; e i 131 metri di ferro sono divenuti emblema indiscusso della popolazione di quella parte di Roma che più di altre ha visto gli orrori della guerra; il bombardamento della stazione ostiense l’ha sfiorato, i camion tedeschi dei rastrellamenti l’hanno percorso e il 7 aprile del 1944 è stato triste testimone della barbarie nazista e della fucilazione di dieci donne romane che avevano osato sfidare le SS occupando un forno perché volevano pane per i loro figli.

E piano piano ha visto passare gli anni, scorrergli la vita intorno, cambiare sostanzialmente quei romani che ha protetto fin dalla nascita i quali, ora, lo percorrono sbadatamente con le loro auto sempre più grandi e pesanti che a mala pena riescono ad entrate nelle due carreggiate. Ed è divenuto tetto di una nuova disperata e invisibile umanità che alloggia sotto la sua campata sperando di non essere notata più di tanto. Extracomunitari senza speranza di salvezza che vivono alla giornata e dal cui accampamento potrebbe essere partita la fiamma che ha dato vita all’incendio. Forse. O forse il tutto è partito dal Ponte stesso, che, stanco di essere anche lui invisibile al popolo che per tanti decenni ha servito fedelmente, ha deciso di mostrare con un atto simbolico e proprio alla vigilia delle elezioni comunali, che nessuno può essere sfruttato e poi abbandonato al suo destino, solo e dimenticato da tutti senza che la comunità stessa ne risenta in modo significativo.

Giacomo Di Maria


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