martedì 7 dicembre 2021

Pearl Harbour ottanta anni dopo

 

Grafica di Linda Chen

Era il 7 dicembre del 1941. Una radiosa alba stava sorgendo sull’isola di Oahu; il sole si affacciava spavaldo dietro la catena vulcanica

dell’isola del Pacifico andando pian piano ad illuminare posti paradisiaci; la sabbia di Waikiki si scaldava magicamente e i raggi tiepidi entravano dalle finestre delle case di Honolulu. I militari di stanza a Pearl Harbour si stiracchiavano mollemente immaginando nel torpore del dormiveglia a come avrebbero cavalcato le onde, sicuri in cuor loro di essere nel posto più lontano possibile dalla guerra che imperversava in Europa. Erano al sicuro, protetti da centinaia di migliaia di metri cubi di oceano, liberi di progettare il futuro prossimo.

Ma non avevano fatto i conti con un gioco atroce molto più grande dei loro miseri desideri, con un mostro fagocitatore che divora ogni semplice anelito di tranquillità sulla faccia della terra, con la smania di potere e controllo che animava in quegli anni ogni singolo stato che ambiva ad occupare un posto di predominio sullo scacchiere mondiale.

E il Giappone, il paese del Sol Levante, non era da meno in questa forsennata corsa alla distruzione globale che poi, di lì a poco, sarebbe la sua stessa autodistruzione.

Mentre gli alisei muovevano dolcemente le fronde dei palmeti e della rigogliosa vegetazione alimentata dalla grassa terra vulcanica, un rombo costante e sinistro si faceva sempre più vicino, fino a quando il cielo azzurro sopra la baia non venne oscurato da un fitto reticolato di aerei da guerra sotto le cui ali troneggiava l’inconfondibile disco rosso sangue. Fu un attimo e una pioggia di bombe, un muro di morte, cominciò incessantemente a cadere dall’alto, colpendo senza pietà ogni obiettivo militare possibile. E ce n’erano di obiettivi militari a Pearl Harbour. L’intera United States Pacific Fleet, in rada nel posto che si riteneva più sicuro al mondo, venne annientata nel giro di una manciata di minuti. Corazzate, cacciatorpediniere, incrociatori, vennero sgretolati come giocattoli in balia di un bambino violento; e portarono con loro sul fondo dell’oceano duemilaquattrocentotre vite. Dal canto suo la Marina Imperiale Giapponese perse solo cinquantacinque piloti, molti dei quali kamikaze, e ventinove aerei.

L’ammiraglio Yamamoto ebbe un successo strepitoso con questa operazione, ma dovette sentirsi come il chirurgo che perde un paziente alla fine di un intervento perfettamente riuscito. Un piccolo pezzo di un grande ingranaggio: questo fu il suo compito che svolse a meraviglia, cosciente di aver svegliato, come disse lui stesso, il gigante dormiente. L’Imperatore Hiroito, invece, non ebbe subito ben chiaro questo concetto; pensò di cogliere, in questo modo, alla sprovvista gli USA che se ne stavano ad osservare la situazione europea da un angolino senza farvisi chiamare dentro. Ordinò l’attacco nel Pacifico con una goffa strategia militare e politica: nel suo progetto la dichiarazione di guerra agli americani sarebbe stata consegna pochi minuti prima dell’inizio dei bombardamenti; ma così non andò; il cablogramma con la dichiarazione si inceppò negli ingranaggi tecnici e burocratici dell’ambasciata nipponica a Washington e, di fatto, l’attacco di Pearl Harbour risultò essere il più grande atto di vigliaccheria della Seconda Guerra Mondiale, gettando una indelebile macchia di infamia sul paese che più di ogni altro al mondo fa dell’onore la propria bandiera. Ma Hiroito era accecato dalla smania di conquista, dalla necessità di consolidare la sete espansionistica sulla terraferma che, da egli stesso nominata con protervia la “sfera di co-prosperità della grande Asia orientale”, era iniziata con l’invasione della Manciuria nel 1931, un territorio strappato alla Cina ma ambito dai Russi. E questa ingenua, smodata e scomposta bramosia era stata cavalcata dal sottile stratega del male Adolf Hitler, che aveva sussurrato nelle orecchie del povero e sprovveduto Imperatore nipponico insani suggerimenti con l’intento di trascinare in guerra gli USA promettendo in cambio assicurazioni per la protezione dei confini della Manciuria stessa. E il progetto del demonio riuscì benissimo.

Ma il Giappone, il povero Giappone, non tenne in considerazione che sarebbe stato il primo drammatico esempio di come il “gigante dormiente” reagisca quando si toccano i suoi interessi e il suo popolo. La reazione degli USA la conosciamo tutti. La storia è tragicamente nota. La terribile vendetta si abbatté senza sconti sulla popolazione inerme di Hiroshima e Nagasaki e le vittime di Pearl Harbour vennero vendicate cento volte ciascuna, almeno nell’immediatezza degli avvenimenti. E già, perché oltre alle duecentocinquantamila vite spazzate via dall’impatto delle due bombe atomiche, altre centinaia di migliaia furono le persone devastate nelle generazioni successive dagli effetti delle radiazioni.

Il presidente Franklin Delano Roosvelt lo disse chiaramente; l’America non si sarebbe fermata fino a quando la sua sete di giustizia non sarebbe stata appagata. E così fu, allora e nei decenni a venire. Questo divenne un concetto fondante della politica estera americana. Il monito di Roosvelt ha continuato ad echeggiare fino ai giorni nostri, fino, ad esempio, alle conseguenze degli attentati dell’11 settembre, fino all’Afghanistan, in un corto circuito temporale in cui sembra che l’essere umano non intenda imparare dalla storia, dai propri errori, dalle proprie mostruosità dilaniando poco a poco la propria stessa anima, privandola della pietà, della misericordia, dell’indulgenza, dell’intelligenza emotiva. Questa è la deprivazione di umanità che rischia di portare la nostra specie al “naufragio di civiltà” di cui ha parlato ieri papa Francesco, che va fermato a tutti i costi, prima del disastro.

Giacomo Di Maria

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