Il 30 gennaio di settantacinque anni fa moriva Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma, la “grande anima” dell’India devastata dalle lotte fratricide e dalla
bipartizione territoriale, sociale e religiosa ad opera dell’Impero Britannico. Il “venerabile”, o semplicemente “bapu”, padre, si batteva pe questioni che coinvolgevano milioni di esseri umani.Diciassette giorni prima, il 13 gennaio del 1948 aveva iniziato l’ultimo digiuno spirituale della sua vita per chiedere la cessazione delle violenze tra comunità Indu, Musulmana e Sikh che non trovavano un accordo sulla definizione dei confini delle nuove e indipendenti nazioni di India e Pakistan.
Gandhi giungeva così, inconsapevole e ignaro della propria fine per mano di un fanatico assassino, al termine del suo cammino spirituale e politico che lo aveva portato a spogliarsi di tutte le frivolezze e degli inutili orpelli tanto materiali quanto ideologici che corrompono la via dell’introspezione, della preghiera, dell’ascetismo e della riconnessione con Dio mirata al raggiungimento della giusta via per servire gli umili, le creature fragili, i propri fratelli e sorelle, il proprio popolo.
Questo era il senso del digiuno per Gandhi; una sorta di pulizia interiore, di alleggerimento dell’anima, di percorso ascetico che porta alla perfetta forma di preghiera universale, nonché una offerta concreta a Dio e una manifestazione di umile servizio alla popolazione per chiedere qualcosa non per se stesso o per un tornaconto personale ma per la sua amata India, nazione fatta di persone, volti e sentimenti diversi e che intorno al suo padre spirituale aveva trovato una solida identità umana ma una flebile identità politica. Il digiuno era per il Mahatma la forma più pura di preghiera e l’unico mezzo accettabile per manifestare la propria opposizione al governo britannico e per condurre le proprie battaglie civili contro le segregazioni razziali e religiose che dilaniavano il proprio popolo suddiviso in aberranti caste sociali.
Questo era ciò per cui Gandhi si batteva, concependo la privazione del cibo come unico strumento possibile di lotta, e ripudiando ogni forma di violenza che gli esseri umani possano esercitare gli uni contro gli altri.
Il digiuno di Gandhi non era, quindi, un mezzo per soffiare sui focolai di livore, rabbia, ferocia e aggressività fratricida, non era un innesco di anarchica e selvaggia volenza.
Così nacque nel mondo la pratica del digiuno come strumento di lotta per l’ottenimento dei diritti civili, ampiamente utilizzato anche nel nostro Paese nei decenni passati. Ed è sempre stata una pratica che, quindi, ha camminato di pari passo con la non violenza e con le manifestazioni pacifiche di dissenso nonché con la dialettica e con le forme più alte di alterco e diverbio politico.
Possibile che siano bastati solo settantacinque anni perché il senso degli insegnamenti profondi che questo santo uomo ha lasciato all’umanità sia stato stravolto, violato e colpevolmente strumentalizzato?
Guardiamoci intorno. Dov’è lo spirito del Mahatma, ora?
Giacomo Di Maria
Nessun commento:
Posta un commento