Oggi si festeggia per la qurantaseiesima volta la “giornata internazionale dei diritti della donna”.
Questa ricorrenza
Rimane, però, una giornata che assume significati differenti a seconda delle coordinate terrestri da cui la si osserva, la si commemora, la si declina.
La figura femminile, l’essere donna nel suo significato più profondo, assume valori sociali e assoluti assolutamente antitetici in paesi e nazioni non solo distanti fisicamente tra loro, ma anche politicamente, culturalmente, religiosamente e antropologicamente.
Nella stessa Europa, o comunque nel mondo occidentale, per esempio, le donne vennero considerate esseri umani aventi diritto ad esprimere la propria opinione politica in tempi estremamente differenti. Il paese più all’avanguardia fu la Nuova Zelanda, che permise all’universo femminile di votare nel 1893, mentre la civilissima Svizzera equiparò diritti civili di uomini e donne nel 1971, solo sei anni prima che venisse proclamata la “festa della donna”.
Gli USA raggiunsero questa conquista di civiltà nel 1920, mentre i Paesi Scandinavi intorno al 1906; l’Inghilterra e l’Irlanda nel 1918, l’Italia nel 1946.
L’Arabia Saudita ha aperto le porte all’emancipazione femminile nel 2011.
Ma, nonostante questo, la figura femminile ha ancora un pesante mantello di cliché, di lacci, di vincoli, di divieti che pesano come pietre sulla strada dell’equità dei diritti, dell’equivalenza delle figure professionali femminili e maschili, della semplice lotta e del semplice diritto alla sopravvivenza.
In Italia lottiamo per l’equiparazione delle carriere e dei compensi a parità di incarico tra uomini e donne, parliamo di quote rosa, esultiamo per un segretario di partito finalmente donna o per un presidente del consiglio donna anch’essa. L’Inghilterra, Israele, lo Sri Lanka, l’India e l’Argentina ci hanno preceduto di decenni.
Il presidente del Parlamento Europeo è una donna.
E mentre in occidente la vera conquista è che nel tempo tutto questo sta diventando abbastanza normale da non, finalmente, causare quasi più stupore, nel terzo mondo le donne devono lottare per sopravvivere a pratiche barbare come l’infibulazione, devono sognare di potere avere diritto all’istruzione, all’educazione, alla scolarizzazione, devono sperare di non essere usate come merce di scambio, di non essere vendute dalle proprie famiglie come spose bambine, di non morire di parto a dodici anni.
Mentre lo stridio di queste differenti condizioni di vita lacera la coscienza del mondo così detto civile, a pochi passi da noi delle donne si ribellano al grido di “donna, vita, libertà” al regime degli ayatollah mettendo a repentaglio la propria vita che vale meno di nulla per gli integralisti islamici che governano il paese. In nome di Mahsa Amini, uccisa brutalmente per non aver indossato correttamente il velo, le ragazze, le donne, le bambine iraniane preferiscono morire piuttosto che continuare a non-vivere in condizioni di odiosa e insopportabile sottomissione. E la loro vera conquista è stato il fiume di uomini che le hanno supportate e le stanno sostenendo, affiancando, che stanno dando la vita con e per loro in una rivolta che tutti speriamo divenga una vera e propria rivoluzione.
A tutte me Mahsa Amini sparse per il mondo, a tutte le donne che offrono la loro grandezza, la loro forza, il loro coraggio, la loro caparbietà, il loro sacrificio per cambiarlo, questo mondo, dico auguri.
A tutte le donne che rifiutano la superficialità, la frivolezza, la banalità, il conformismo, a tutte le donne che hanno il coraggio di essere diverse, dico auguri.
A tutte le donne che hanno cambiato la storia del mondo con le proprie idee, dico auguri.
A tutte le donne che non sono nella condizione di svincolarsi dal giogo della violenza maschile, chiedo scusa.
Auguri a tutto l’universo femminile.
Giacomo Di Maria
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