“Ho lasciato il cuore tra quei corridoi” — Tommaso Paradiso al De Merode
In “Casa Paradiso”, di Tommaso Paradiso, progetto da lui definito come un ritorno a casa, c’è anche il Collegio San Giuseppe-Istituto De Merode di Piazza di Spagna.
Incontriamo Tommaso Paradiso, artista e simbolo generazionale, in procinto di lanciare il nuovo progetto “Casa Paradiso” e dare il via al tour che lo porterà nei prossimi mesi nei palasport di tutta Italia, nella scuola romana in cui ha studiato, il Collegio San Giuseppe-Istituto De Merode di Piazza di Spagna. Ricorda con precisione le classi in cui è stato, il banco che ha condiviso con i suoi compagni di classe con i quali ancora conserva stretti legami di amicizia e di frequentazione.
Qui, Tommaso, hai frequentato la Scuola Media e poi il Liceo Classico. Immagino che proprio in quegli anni è nata la tua passione per la filosofia, che poi hai studiato all’università e in cui hai conseguito una brillante laurea. Quest’anno la tua vecchia scuola compie 175 anni dalla fondazione, una tappa importante che la configura come una delle scuole italiane con più ricca tradizione e storia. Una storia di cui fai parte anche tu. Che effetto ti fa ripensare a queste aule, dove hai passato una parte importante della tua vita?
«Mi capita ancora di sognarmele la notte. È stato uno dei momenti più belli della mia vita. Ho lasciato un pezzo di cuore in queste aule, in questi corridoi; se ci penso, riesco ancora a sentire le stesse emozioni di allora. Ricordo ogni giorno trascorso tra queste mura come se fosse ieri. Ho incontrato persone meravigliose, professori con cui sono tuttora in contatto e compagni che sono diventati amici per la vita”
C’è un ricordo, un volto, un suono che ti riporta immediatamente ai tuoi anni al De Merode?
“Ogni volta che passo per Via San Sebastianello o Via Margutta mi tornano alla mente gli anni delle medie e del liceo. Ho troppi ricordi, ancora vivi e presenti, per sceglierne uno solo. Quando mi rivedo con gli amici del liceo, finiamo sempre per raccontarci gli episodi indimenticabili di quegli anni. Ne avrei a migliaia: se li raccontassi tutti, questa conversazione non finirebbe più”
Come descriveresti il ragazzo che eri quando frequentavi l’Istituto?
“Ero pieno di vita. Ero felice di svegliarmi e andare a scuola. Certo, non mancavano i giorni difficili: delle volte cinque interrogazioni in cinque ore, in materie diverse… Magari quella della prima ora riuscivi a saltarla “per sbaglio”, arrivando in ritardo. Ho avuto la fortuna di capitare in una classe incredibile, rimasta quasi leggendaria nella storia del San Giuseppe. Da un lato facevamo impazzire i professori – non eravamo certo tranquilli – ma dall’altro eravamo una classe molto preparata: alle interrogazioni andavamo sempre bene, i voti erano alti e c’era una bella competizione, sempre costruttiva. Ricordo un consiglio di classe in cui la professoressa di scienze disse: “Con questa classe abbiamo un problema: non gli si può dire nulla dal punto di vista dello studio, ma fanno un casino incredibile!”. Eravamo così: appassionati, vivaci, coinvolti”.
Questa scuola, i tuoi insegnanti, le persone che hai incontrato, hanno in qualche modo contribuito alla tua formazione — non solo artistica, ma umana?
“La scuola, per me, è stata soprattutto un’esperienza umana. Credo che la cultura, intesa come conoscenza, e la cultura sentimentale vadano di pari passo. Platone diceva che, se si conoscesse davvero la realtà, non si commetterebbero errori: la conoscenza profonda porta all’agire giusto. Per me la scuola è il vero momento formativo di un essere umano, non si scappa. Ho avuto la fortuna di avere insegnanti che non dimenticherò mai, di cui ricordo ancora le lezioni. L’ultimo giorno di scuola è stato uno dei momenti più intensi della mia vita: ho sentito chiaramente che da lì in poi ci sarebbe stato un “prima” e un “dopo”. Oggi, a 42 anni, guardando indietro, mi sembra che siano passati pochi secondi. Il legame con la scuola accorcia il tempo, quasi lo annulla”.
C’è qualcosa che ti ha insegnato la scuola che ti porti ancora oggi sul palco?
“Il professor Cataluddi, il mio insegnante di filosofia, quando capì che ero completamente inebriato dalla musica, una volta durante la ricreazione mi disse: “Sai che filosofia e musica non vanno così d’accordo?”. Probabilmente, da un punto di vista razionale, aveva ragione – anche se non mancano celebri filosofi che erano ottimi musicisti. Dopo il liceo, infatti, mi iscrissi a Filosofia, pur sognando di fare ciò che poi ho realizzato. Per me non esiste una separazione: ogni esperienza che viviamo ce la portiamo dietro per sempre. Sul palco c’è anche quel ragazzo del liceo”.
Nel tuo percorso di musicista, quanto contano le emozioni vere — quelle che nascono tra i banchi, nei corridoi, negli sguardi?
“Qualche anno fa ho scritto una canzone che ha avuto un discreto successo, I nostri anni. Il testo nasce proprio da quelle emozioni: la vita tra i banchi, le sere a casa passate a studiare, la disperazione prima di un’interrogazione. Il passato vive in me, non è solo un ricordo”.
Che consiglio daresti ai ragazzi che oggi frequentano queste aule e magari sognano, come te allora, di cambiare il mondo?
“Ai ragazzi dico, prima di tutto, di studiare. Lo so, può sembrare banale, ma – semplificando molto – sapete cosa diceva Aristotele sulla felicità? Che la felicità è conoscenza. Studiare rende felici, perché più sai più hai strumenti per cambiare le cose, se non ti piacciono. Più conosci più riuscirai a scegliere la strada giusta. Ami il cinema o le commedie? Leggi Plauto. Vuoi scrivere un film drammatico? Leggi Euripide, Eschilo, Sofocle. Non dico che sia stato tutto già detto, ma non possiamo ignorare i Giganti. Sei appassionato di politica? Leggi Platone, così da non cadere nella demagogia”.
Oggi la scuola sta cambiando: l’intelligenza artificiale entra in classe, la creatività incontra la tecnologia. Anche al De Merode ci sono importanti progetti innovativi in questo campo. Da artista, che ne pensi di questo incontro?
“Il rapporto con le nuove tecnologie è un tema complesso, perché non è ancora stato storicizzato. È difficile esprimersi sulle avanguardie che viviamo nel presente. Prima di tutto dobbiamo accettare che certe realtà esistono e che non si può tornare indietro. Ma non dimentichiamo mai che sono strumenti, non motori. Il motore siamo noi. Io sono fortunato, perché la parte creativa non la delegherò mai a nessuno, né a qualcosa che non sia me stesso. Uso ChatGPT? Sì, ma per altro, non certo per scrivere una canzone”.
Se dovessi scrivere una canzone per raccontare questa scuola oggi, quale sarebbe il titolo?
“Probabilmente quella l’ho già scritta, e si chiama proprio I nostri anni”.
Il nostro motto per il 175° è "Costruiamo il futuro da 175 anni”. Cosa significa per te questa frase?
“Centosettantacinque anni di passione, amore, dedizione e trasmissione di cultura. Se le radici sono solide, anche il futuro lo sarà. Penso a quante persone sono passate in questo Istituto: ognuna ha contribuito a costruirne la storia. In qualche modo, esso ci tiene tutti lì, tra le sue mura, anche quando non ci saremo più”.
Se potessi lasciare un messaggio ai ragazzi del futuro, a chi entrerà domani nel cortile del San Giuseppe per la prima volta, cosa diresti in una sola frase?
“Quel giorno in cui entrerai per la prima volta non lo dimenticherai più – e ti assicuro che non è una minaccia! Farà per sempre parte della tua vita e sarà uno dei ricordi più belli che porterai nel cuore, anche quando sarai diventato un vecchietto. E ricordatevi questo: se Fas sarà il vostro professore di latino e greco, sappiate che interroga in ordine cronologico. Quindi, fate come facevamo noi: prendete un registro per segnare tutto, e non sarete mai colti di sorpresa.»
Fr. Alessandro Cacciotti



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