giovedì 17 dicembre 2020

Femminicidio: cosa deve domandarsi ognuno di noi.

 


Il 25 novembre scorso è stata celebrata la “Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne”. Ne abbiamo parlato anche noi, qui, per testimoniare l’impegno che i ragazzi della nostra età dovrebbero considerare come primario per costruire una società migliore in cui vivere il nostro domani. Eppure il fatto che vada ancora eradicata dalla mentalità italiana l’idea che sia possibile alzare impunemente una mano su una donna stride fortemente con il sogno di una comunità umana nella quale non esistano differenze di genere nel campo dei diritti sociali, lavorativi, umani. Siamo ancora indietro, molto indietro, troppo indietro.

Solo pochi giorni dopo una data importante per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica su un argomento tanto spinoso quanto attuale, mirata a diffondere un concetto fondamentale per forgiare un avvenire più giusto per donne che saranno la spina dorsale della società di domani, una sentenza della Corte di Assise di Brescia ci ha catapultati in un passato che speravamo divenisse remoto in un futuro molto prossimo.

Non voglio entrare nel merito tecnico della sentenza –non ne possiedo la competenza- ma ragionare su quello che è emerso dalle testate giornalistiche e che ha suscitato sbigottimento prima e indignazione poi nella maggior parte, per fortuna, delle persone che hanno fatto la scelta di interessarsi all’argomento e non girarsi dall’altra parte.

Un ottantenne italiano, responsabile del brutale omicidio della moglie, è stato assolto perché il gesto estremo è stato commesso “in preda ad un delirio di gelosia”. E questa motivazione, sinceramente, lascia senza parole.

L’uomo, per non essere condannato, ha avuto bisogno di essere considerato incapace di intendere e di volere, ha avuto bisogno di arrivare a essere reputato folle, come folle è chiunque attenti alla vita di un altro essere umano, con la giustificazione, o meglio attenuante, di essere semplicemente “geloso”. Per il giudice che ha emesso questa sentenza la gelosia è un onorevole sentimento che giustifica, avalla, nobilita quasi, una violenza estrema che annienta, cancella, distrugge, schiaccia la delicata esistenza di un essere umano di genere femminile con cui l’assassino ha condiviso una intera esistenza. Questo mezzo uomo, perché chi alza le mani su una donna non può essere di certo un uomo intero, in sostanza, non è un assassino.  La gelosia, che deriva dalla parola “zelo”, brama, desiderio, è un sentimento che genera ansia, sospetto, possessività, umiliazione e incertezza e questo è bastato a far sì che la Corte della sentenza in questione potesse pensare che un eccesso di questo impulso emotivo fosse causa sufficiente e necessaria per giustificare un atto di una viltà prevaricatrice e meschina. A questo siamo arrivati, a questo siamo tornati. L’equazione traballante che viene fuori dalla sentenza della Corte d’Assise di Brescia riporta il nostro paese indietro di trentanove anni; al 5 agosto del 1981, quando veniva abrogato in Italia il “delitto d’onore”. Fino a trentanove anni fa veniva considerato normale il fatto che in particolari ambiti culturali la pressione esercitata dall’estrema importanza data alla reputazione sociale di un uomo potesse giustificare atti violenti fino all’estremo perpetrati su mogli, compagne, fidanzate, sorelle. Come se l’onore di un uomo, e cioè la sua dignità morale, dipendesse dai comportamenti reali o sospetti di quella che veniva considerata a tutti gli effetti dalla società una sua sub-parte di grado inferiore, proprietà sottomessa, della quale il maschio era in diritto di decidere della vita e della morte. E nel caso avesse scelto di darle la morte per ragioni di gelosia, tradimento vero o presunto, la pena attribuitagli da un tribunale sarebbe stata inversamente proporzionale all’approvazione della opinione pubblica e del suo contesto sociale.

Ma con l’omicidio l’onore non c’entra. Non più. Non nel 2020. Non possono esistere attenuanti per un femminicidio. Non nella civilissima Europa. Non nel nostro civilissimo Paese.

Secondo uno degli ultimi report dell’Osservatorio per i Delitti sulle Donne delle Nazioni Unite, in Europa e in Italia in particolar modo, tendiamo ormai a confondere la violenza domestica e il femminicidio domestico con il vero “delitto d’onore” che, invece, è ancora considerato normale in alcune realtà del globo e che è dettato da costumi culturali e tribali che si mescolano  a errate interpretazioni di credo religiosi.

Questo ci porta tristemente a pensare che le cose non siano cambiate molto, a prescindere dal nome che vogliamo dare loro.

Nel 1981 è stato, di fatto, eliminata una denominazione, non è stato eradicato un concetto, un modo di pensare, un modo di concepire il rapporto tra i due universi maschile e femminile. Si è erroneamente pensato che bastasse eliminare un’idea dalla carta per rimuoverla magicamente anche dalla cultura popolare; e in questo modo la patologica concezione per cui una donna sia obbligata a un rapporto di sudditanza rispetto all’uomo, rispetto al quale è essere inferiore, ha continuato a serpeggiare in tutti gli strati della società italiana alimentandosi con esempi beceri provenienti anche dal mondo della stampa e dello spettacolo che hanno continuato  a proporre modelli umilianti e sminuenti della figura femminile.

Mi chiedo come sia possibile che la “gelosia”, che è un sentimento basato sul senso di possesso di un altro essere umano e sulla contemporanea sfiducia in quella stessa persona, e che è quindi un sentimento inequivocabilmente malato, possa essere considerato un elemento positivo in fase di giudizio. E come sia possibile che quello stesso disvalore, che portato agli eccessi alimenta una cieca, incontrollata, tragica violenza, possa essere ancora considerato, a sua volta, neanche una discutibile attenuante, ma addirittura un fattore “correttivo” per una pena, un elemento assolvente, quasi redimente e purificatore. Chi, in sede di giudizio o in una analisi superficiale, in una chiacchierata “da bar” continua a reputare un  femminicida un uomo giustificato dal suo ardore e dal suo troppo attaccamento ad una persona  “amata”, e che vede in quel sentimento amoroso divenuto patologico, una giustificazione morale, è rimasto in un’epoca che forse, non è neanche mai esistita.  Anche nel nostro paese, come giustamente sottolineato dall’Osservatorio per i delitti sulle donne dell’ONU, questa visione distorta della figura femminile apparteneva a zone antropologiche specifiche, nelle quali retaggi culturali antichi si mescolavano a ignoranza e arretratezza.

Da che cultura viene chi attribuisce ad un femminicida la “pena zero”? Quali distorti preconcetti vagano nella mente di chi, anche tra noi, arriva a giudicare la vittima e non l’aggressore? È la stessa becera cultura di chi addossa ad una donna violentata la colpa di essere stata provocante, ammiccante, apparentemente disponibile, scaricando su di lei la responsabilità del martirio subìto e assolvendo l’aggressore in quanto uomo.

E voglio aggiungere anche un’altra considerazione. Chi sfoga la propria ira e le proprie frustrazioni su un essere che nella piccolezza della sua ignoranza considera inferiore, oltre ad essere un vigliacco senza possibilità di appello, è un pavido, un meschino che rivolge le sue violente attenzioni solo verso chi considera debole, remissivo, arrendevole, perdente, che sia donna, ragazza, bambina.

E mi chiedo: che ne ha fatto la nostra società di quelle figure femminili forti, ispiratrici, autonome  e matriarcali che la storia ci ha consegnato? Dov’è la forza che i Romani attribuivano alle dee che governavano il mondo con le loro autorevoli caratteristiche? Dov’è la grandezza di Rea Silvia? Dove sono le donne angelicate della nostra letteratura? Possibile che il rispetto per la figura femminile che duemila anni di storia ci hanno lasciato, non abbia piantato radici profonde nel nostro tessuto sociale e culturale? Possibile che il nostro sia un paese nel quale c’è bisogno delle “quote rosa” per ricordare a tutti che una società nella quale ci siano solo persone, con uguali diritti e doveri a prescindere dell’identità di genere che le distingue non può e non deve essere una chimera, un sogno utopistico?

E chiudo ponendo un quesito a me stesso e ai miei coetanei maschi. Che tipo di uomini vorremo essere? Che tipo di persone vorremo diventare? Cosa vorremo condividere con le nostre compagne? Quale società saremo in grado di consegnare al futuro? Perché noi non siamo il futuro, siamo il presente, il futuro ci toccherà, ma appartiene già a chi verrà dopo di noi, che sia donna o uomo. 

Giacomo Di Maria

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