Il 25 novembre scorso è stata celebrata la “Giornata
internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne”. Ne abbiamo
parlato anche noi, qui, per testimoniare l’impegno che i ragazzi della nostra
età dovrebbero considerare come primario per costruire una società migliore in
cui vivere il nostro domani. Eppure il fatto che vada ancora eradicata dalla
mentalità italiana l’idea che sia possibile alzare impunemente una mano su una
donna stride fortemente con il sogno di una comunità umana nella quale non
esistano differenze di genere nel campo dei diritti sociali, lavorativi, umani.
Siamo ancora indietro, molto indietro, troppo indietro.
Solo pochi giorni dopo una data importante per la
sensibilizzazione dell’opinione pubblica su un argomento tanto spinoso quanto
attuale, mirata a diffondere un concetto fondamentale per forgiare un avvenire
più giusto per donne che saranno la spina dorsale della società di domani, una
sentenza della Corte di Assise di Brescia ci ha catapultati in un passato che
speravamo divenisse remoto in un futuro molto prossimo.
Non voglio entrare nel merito tecnico della sentenza –non ne
possiedo la competenza- ma ragionare su quello che è emerso dalle testate
giornalistiche e che ha suscitato sbigottimento prima e indignazione poi nella
maggior parte, per fortuna, delle persone che hanno fatto la scelta di
interessarsi all’argomento e non girarsi dall’altra parte.
Un ottantenne italiano, responsabile del brutale omicidio
della moglie, è stato assolto perché il gesto estremo è stato commesso “in
preda ad un delirio di gelosia”. E questa motivazione, sinceramente, lascia
senza parole.
L’uomo, per non essere condannato, ha avuto bisogno di essere
considerato incapace di intendere e di volere, ha avuto bisogno di arrivare a
essere reputato folle, come folle è chiunque attenti alla vita di un altro
essere umano, con la giustificazione, o meglio attenuante, di essere
semplicemente “geloso”. Per il giudice che ha emesso questa sentenza la gelosia
è un onorevole sentimento che giustifica, avalla, nobilita quasi, una violenza
estrema che annienta, cancella, distrugge, schiaccia la delicata esistenza di
un essere umano di genere femminile con cui l’assassino ha condiviso una intera
esistenza. Questo mezzo uomo, perché chi alza le mani su una donna non può
essere di certo un uomo intero, in sostanza, non è un assassino. La gelosia, che deriva dalla parola “zelo”, brama,
desiderio, è un sentimento che genera ansia, sospetto, possessività,
umiliazione e incertezza e questo è bastato a far sì che la Corte della
sentenza in questione potesse pensare che un eccesso di questo impulso emotivo fosse
causa sufficiente e necessaria per giustificare un atto di una viltà
prevaricatrice e meschina. A questo siamo arrivati, a questo siamo tornati.
L’equazione traballante che viene fuori dalla sentenza della Corte d’Assise di
Brescia riporta il nostro paese indietro di trentanove anni; al 5 agosto del
1981, quando veniva abrogato in Italia il “delitto d’onore”. Fino a trentanove
anni fa veniva considerato normale il fatto che in particolari ambiti culturali
la pressione esercitata dall’estrema importanza data alla reputazione sociale
di un uomo potesse giustificare atti violenti fino all’estremo perpetrati su
mogli, compagne, fidanzate, sorelle. Come se l’onore di un uomo, e cioè la sua
dignità morale, dipendesse dai comportamenti reali o sospetti di quella che
veniva considerata a tutti gli effetti dalla società una sua sub-parte di grado
inferiore, proprietà sottomessa, della quale il maschio era in diritto di
decidere della vita e della morte. E nel caso avesse scelto di darle la morte
per ragioni di gelosia, tradimento vero o presunto, la pena attribuitagli da un
tribunale sarebbe stata inversamente proporzionale all’approvazione della
opinione pubblica e del suo contesto sociale.
Ma con l’omicidio l’onore non c’entra. Non più. Non nel
2020. Non possono esistere attenuanti per un femminicidio. Non nella
civilissima Europa. Non nel nostro civilissimo Paese.
Secondo uno degli ultimi report dell’Osservatorio per i
Delitti sulle Donne delle Nazioni Unite, in Europa e in Italia in particolar
modo, tendiamo ormai a confondere la violenza domestica e il femminicidio
domestico con il vero “delitto d’onore” che, invece, è ancora considerato
normale in alcune realtà del globo e che è dettato da costumi culturali e
tribali che si mescolano a errate
interpretazioni di credo religiosi.
Questo ci porta tristemente a pensare che le cose non siano
cambiate molto, a prescindere dal nome che vogliamo dare loro.
Nel 1981 è stato, di fatto, eliminata una denominazione, non
è stato eradicato un concetto, un modo di pensare, un modo di concepire il
rapporto tra i due universi maschile e femminile. Si è erroneamente pensato che
bastasse eliminare un’idea dalla carta per rimuoverla magicamente anche dalla
cultura popolare; e in questo modo la patologica concezione per cui una donna
sia obbligata a un rapporto di sudditanza rispetto all’uomo, rispetto al quale
è essere inferiore, ha continuato a serpeggiare in tutti gli strati della
società italiana alimentandosi con esempi beceri provenienti anche dal mondo
della stampa e dello spettacolo che hanno continuato a proporre modelli umilianti e sminuenti
della figura femminile.
Mi chiedo come sia possibile che la “gelosia”, che è un
sentimento basato sul senso di possesso di un altro essere umano e sulla
contemporanea sfiducia in quella stessa persona, e che è quindi un sentimento inequivocabilmente
malato, possa essere considerato un elemento positivo in fase di giudizio. E come
sia possibile che quello stesso disvalore, che portato agli eccessi alimenta
una cieca, incontrollata, tragica violenza, possa essere ancora considerato, a
sua volta, neanche una discutibile attenuante, ma addirittura un fattore
“correttivo” per una pena, un elemento assolvente, quasi redimente e purificatore.
Chi, in sede di giudizio o in una analisi superficiale, in una chiacchierata
“da bar” continua a reputare un
femminicida un uomo giustificato dal suo ardore e dal suo troppo
attaccamento ad una persona “amata”, e
che vede in quel sentimento amoroso divenuto patologico, una giustificazione
morale, è rimasto in un’epoca che forse, non è neanche mai esistita. Anche nel nostro paese, come giustamente
sottolineato dall’Osservatorio per i delitti sulle donne dell’ONU, questa
visione distorta della figura femminile apparteneva a zone antropologiche
specifiche, nelle quali retaggi culturali antichi si mescolavano a ignoranza e
arretratezza.
Da che cultura viene chi attribuisce ad un femminicida la
“pena zero”? Quali distorti preconcetti vagano nella mente di chi, anche tra noi,
arriva a giudicare la vittima e non l’aggressore? È la stessa becera cultura di
chi addossa ad una donna violentata la colpa di essere stata provocante,
ammiccante, apparentemente disponibile, scaricando su di lei la responsabilità
del martirio subìto e assolvendo l’aggressore in quanto uomo.
E voglio aggiungere anche un’altra considerazione. Chi sfoga
la propria ira e le proprie frustrazioni su un essere che nella piccolezza
della sua ignoranza considera inferiore, oltre ad essere un vigliacco senza possibilità
di appello, è un pavido, un meschino che rivolge le sue violente attenzioni
solo verso chi considera debole, remissivo, arrendevole, perdente, che sia
donna, ragazza, bambina.
E mi chiedo: che ne ha fatto la nostra società di quelle
figure femminili forti, ispiratrici, autonome
e matriarcali che la storia ci ha consegnato? Dov’è la forza che i
Romani attribuivano alle dee che governavano il mondo con le loro autorevoli
caratteristiche? Dov’è la grandezza di Rea Silvia? Dove sono le donne angelicate
della nostra letteratura? Possibile che il rispetto per la figura femminile che
duemila anni di storia ci hanno lasciato, non abbia piantato radici profonde
nel nostro tessuto sociale e culturale? Possibile che il nostro sia un paese
nel quale c’è bisogno delle “quote rosa” per ricordare a tutti che una società
nella quale ci siano solo persone, con uguali diritti e doveri a prescindere
dell’identità di genere che le distingue non può e non deve essere una chimera,
un sogno utopistico?
E chiudo ponendo un quesito a me stesso e ai miei coetanei
maschi. Che tipo di uomini vorremo essere? Che tipo di persone vorremo
diventare? Cosa vorremo condividere con le nostre compagne? Quale società
saremo in grado di consegnare al futuro? Perché noi non siamo il futuro, siamo
il presente, il futuro ci toccherà, ma appartiene già a chi verrà dopo di noi,
che sia donna o uomo.
Giacomo Di Maria
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