lunedì 7 dicembre 2020

La verità dell’argilla - parte seconda


Spesso ci si dimentica quanto sia facile morire. Quanto sia facile uccidere. La verità è che i rimorsi, gli incubi, le maledizioni, vengono

solo dopo. Nella maggior parte dei casi non si pensa. Si agisce. Si colpisce. Si ferisce. Si distrugge. Senza alcun riguardo per il mondo, per le norme, per il sole o per la strada. Si agisce e basta. Si spera in un domani più chiaro. In un cielo con qualche stella in più, con qualche nuvola in meno. Così, quando sentì la carne dura del collo fare resistenza, spinse. Quando sentì la spina dorsale e le sue vertebre di sasso, spinse. Quando sentì il midollo e l’anima, spinse. Finché non lo confortò la leggerezza dell’aria. Non volle guardare. Girò gli occhi. Sentì il tonfo di una pietra che cade senza rimbalzare. Poi il rovinare di un corpo inerte. Non volle guardare. Si voltò verso il bambino. Si inginocchiò. Abbassò il capo perché i loro occhi fossero separati da pochi pollici. Lo fissò. Con le vene gonfie di frustrazione, i bulbi ricolmi di lacrime. Gli urlò di correre via. Il bambino non capì, ma corse lo stesso. Corse fino ad Antiochia, fino a Baghdad, fino ai confini del mondo. Corse con le spezie e con l’oro. Corse su templi di legno e mari affrettati. Corse per settant’anni. Corse finché non lo colse la fine in un giardino di cedri, col sorriso sul volto e i baffi profumati. Tristano restò lì per ore, per giorni, per minuti o per secondi. Con le spalle rivolte verso la sua vergogna. Con la rossa croce del mantello che lo proteggeva dalla luce, vera e vendicatrice. Teneva le palpebre cucite come ferite. Il vuoto lo confortava. Si addormentò. Forse svenne. Sognò.

Al suo risveglio era calata la notte. I fuochi e le danze dei bivacchi rallegravano il silenzio delle cicale. La luna splendeva alta in cielo, ungendo di bianco la quiete del sonno. Tristano aprì gli occhi. Si girò. Il corpo era ancora lì, severo, mutilato. Vide che portava una sacca a tracolla. La prese con inusuale delicatezza. Ne cominciò ad esaminare il contenuto. Vi era una croce di ferro, rovinata ma di buona fattura. Un Vangelo in pergamena, di grande valore e dignità aristocratica, copiato da un amanuense esperto. Lo aprì. Sulla prima pagina era scritto un nome. Manfredi di Agrigento. Erano concittadini. Si fermò. Il dolore che il sonno aveva velato precariamente si fece sentire violento. Continuò a cercare. Scorze d’arancia. Secche. Di quelle che piacevano tanto a sua madre. Le odorò, e ricordò la sua terra fertile e rigogliosa. Il profumo era tanto forte da coprire il fetore di morte che lo circondava. Non v’era più niente da cercare. Si alzò. Si accorse di aver perso un altro pezzo di sé stesso. Ormai ci si era abituato. Aveva sete. La birra degli Alamanni lo avrebbe aiutato a dimenticare. I loro baffi biondi e le loro risate gutturali lo avrebbero distratto da colpe e pentimento. Una figura prese forma davanti ai suoi occhi. Non aveva volto. Era insieme puro bianco e puro nero. Riusciva a stento a guardarla e a distinguerla, per quanta luce emetteva e ingoiava.

“Nomen tibi est Tristanus? ”

Il cavaliere taceva, in parte per il terrore, in parte per il suono fin troppo familiare e fin troppo poco conosciuto del latino. 

“Soi ònoma estì Trìstanos;”

Lo scandire oscuro del greco lo incoraggiò a rimanere in silenzio. 

“Allora sei uno di quelli nuovi”

Alzò lo sguardo. Era la sua lingua. Quella che i suoi antenati avevano appreso dai Franchi. 

“È la prima volta che parlo con un Normanno, sai?”

Non riusciva a muovere le labbra.

“Sarai gelato dall’orrore. È una reazione comune, non ti preoccupare”

Continuò a tacere.

“Mi presento: sono la Morte. Quella col teschio e la falce, per intendersi. Il cupo mietitore”

“La Morte?”

“In carne ed ossa… Avresti dovuto ridere: era una battuta”

“Mi aspettavo fossi diverso”

“Come molti. Mi avresti preferito più solenne? Se vuoi posso esserlo”

La figura sembrò divenire alta come la torre di Babele, la sua voce si fece tuono e montagna.

“Fueram Charon ego 

Ma tu m’appelli morte

Tibi or dispiego

La vera e dura sorte 

Di quanti al padre antico

Fe’ l’ore già più corte.

Fu breve Laomedonte, 

Il peccato tuo ignoto

Più grave tra le onte

D’un milite devoto 

Dannato al Flagetonte

Senza speranza alcuna 

Se non del teschio il Monte”

Tornò alla sua statura normale. 

“Ti è piaciuta?”

Tristano tacque. 

“Non hai capito nulla, vero?”

Annuì.

“Meglio così. Sei un uomo pragmatico d’altronde. In parole povere: hai tre giorni per intraprendere un’impresa che lavi via le tue colpe, i tuoi peccati. Se fallirai, al termine di questi tre giorni ti trascinerò nelle viscere della Terra, giù all’Inferno, dove trascorrerai l’eternità in un fiume di sangue bollente”

Deglutì.

“Tutto chiaro?”

“Si… Ma quale impresa?”

“Certo, dimenticavo. Hai due possibilità”

“Come posso scegliere?”

“Dimmi… Testa o croce?”

Apparve una moneta nel palmo della Morte. Tristano restò immobile, pietrificato dalla fragilità del tuo destino.

Vai alla parte terza

 I)Testa

 II)Croce

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