Il Kohen ed il cavaliere
“Croce”
La morte, compiaciuta, lanciò in aria la moneta scurita, facendo sì che roteasse, in modo
innaturale ed incredibile, per un tempo decisamente sproporzionato alla composizione elementare dell’oggetto. Infine, quando ritenne che il sudore che imperlava la fronte corrugata del cavaliere fosse sufficiente, la fece ricadere. Dopo averla afferrata con delicatezza la pose sul dorso della mano (se così si poteva chiamare) e la guardò.“Croce”
Tristano
rimase sospeso in uno di quegli strani attimi nei quali impressioni, pensieri,
ragionamenti ed emozioni si mischiano febbricitanti, stordendo anche la più
severa delle tempre. Si rese conto di non sapere quale premio comportasse la
vittoria, e cosa, poi, nei fatti, fosse una vittoria. Non era, tra l’altro,
nemmeno sicuro di voler vincere, qualunque fosse stato il trofeo. Una
sconfitta, una sconfitta definitiva e finale, oramai, gli pareva sempre più
vicina ad un conforto, piuttosto che ad un’umiliazione. Gli umiliati,
d’altronde, hanno sempre una scusa per essere perdonati.
“Ti
starai chiedendo cosa significhi, per te, la Croce, Cavaliere?”
Decise
di non parlare.
“Risponderò
io, al tuo posto: niente. Che tu avessi scelto Testa o Croce, che tu avessi
vinto o perso, poco sarebbe importato”
“Immaginavo”
“Di
possibilità ce n’era solo una. Ce n’è sempre solo una”
“Perciò
qual era il motivo del tuo gioco?”
“Osservarti.
Osservare come gli uomini reagiscono davanti alla prospettiva di essere liberi,
di essere senza catene, di essere grandi. La vostra volontà mi diverte, mi
affascina: in un certo senso mi stupisce”
“Narrami
la mia impresa, Morte”
“Perché
tanta fretta? Ogni attimo insieme a me ti separa da Me. Ti andrebbe, per
esempio, di giocare a scacchi?”
“No”
“Così
sia.
Un
anziano Kohen ti aspetta vicino al Tempio, o a ciò che ne resta. Parlaci, lui
saprà indicare la via”
E
fu così che il turbine di luce e buio si fece tutto e poi niente, che gli occhi
si chiusero e poi si riaprirono. Rimase solo a contemplare il suo viaggio, con
in cuore la calma di chi ha accettato di dover partire e mai più tornare. Si
chiese cosa ci sarebbe stato dopo, e si augurò un inferno più mite di quello
che gli era stato descritto tante volte, in modi tanto diversi. Passeggiò per
le strade distrutte di Gerusalemme. Il popolo stava tentando di ricostruire ciò
che la guerra, ciò che la storia, gli aveva strappato. Crociati ubriachi si
riscoprivano ogni notte satiri e pirati, Vandali e Visigoti. Monaci e sacerdoti
tentavano di lenire il dolore dei cittadini sopravvissuti. Chi si era salvato
pregava, e mattone dopo mattone, legno dopo legno, si riparava da ciò che
sarebbe venuto. Un forte odore di spezie bruciate aleggiava nell’aria. Tristano
respirava a pieni polmoni, sentendo le narici ardere per la cenere ed il peperoncino.
Era sereno, come non lo era stato per molti anni, ormai. Vide una madre. Una
donna ricca. Una greca. Vestiva di un broccato intessuto d’oro, di un pendente
argenteo. Il trucco nero le esaltava gli occhi traci. Eppure, non aveva sandali
ai piedi. Le unghie erano rotte e annerite, come quelle di chi ha passato la
vita a scavare, a lavorare, per un tozzo di pane, per un mestolo d’acqua. E continuava a battere le mani sulla roccia,
sul cotto pregiato e frantumato, sulle travi di cedro, spostando con forza di
bestia pesi immani, rompendosi ossa e legamenti, tendini e ricordi. Davanti a
lei un palazzo che, una volta (qualche giorno prima), era stato grande e
opulento, ricolmo di servitori fedeli o furbi, di pace, inerzia e pigrizia. Ma
quel mondo era finito. La storia era andata avanti. La donna continuava a
piangere e ad urlare, a chiamare un nome ed un volto, una speranza ed un
legame.
“Σοφία”
“Σοφία”
“Σοφία”
Finché
non le mancò anche la voce e la gola le si fece deserto.
Tristano
arrivò, infine, al Tempio. O meglio, al muro. Una ciclopica costruzione di
massi, testamento monumentale del maestoso edificio di cui mille anni fa faceva
parte. Nelle fessure tra le pietre riposavano incastonate le preghiere e le
lacrime degli ebrei, assorbite in un materiale strano, simile al papiro ed alla
pergamena, eppure da essi distinto. Toccò la struttura, tastandola con
leggerezza ed interesse, tentando di comprenderne il segreto, il potere.
“Fu
la tua stirpe”
Udì
una voce che lo avvolgeva, una mano fredda e ossuta, ma ancora vigorosa, che
gli afferrava il braccio. Aveva un accento particolare, molto forte, che
rendeva la sua lingua d’oil di non facile comprensione.
“Furono
i Latini”
“Io
non sono un Latino, sono un uomo del nord”
“Eppure
parli con parole simili alle loro, vivi in terre che furono loro, preghi in una
lingua che fu la loro: ti chiedo, perciò, non sei forse un Latino?”
“Cosa
vuoi, vecchio?”
“La
redenzione che tu cerchi. Non è stata forse lei a mandarti da me?”
“E
tu, lei la hai mai incontrata?”
“Si,
ma allora scrivevo ancora su pergamena”
Passarono
degli attimi di silenzio, in cui il vento scosse le vesti (e, parve al
cavaliere, l’intero corpo, tanto era esile) del Kohen.
“Quale
impresa mi aspetta?”
“Cose
inquietanti avvengono in questa città. Fatti strani. Fatti insoliti. E non mi
sto riferendo alla guerra…”
“Continua”
“Prima
che entraste, quando ancora esisteva un ordine nelle mura, seppur precario, è
sparito un uomo, un dotto, uno del mio popolo, più anziano e sapiente di me”
“E?”
“Lo
stesso giorno, durante la notte, uno scultore, uno dei vostri, un genovese, è
stato ritrovato morto, nella sua bottega. Sul pavimento era scritto, con
porpora pregiata, la parola ebraica אמת, verità. La bottega era stata
completamente svuotata di tutti i bozzetti in argilla sui quali si esercitava
il gentile. Tutti, nessuno escluso. Si pone davanti a te un bivio. Hai solo tre
giorni per redimerti, e non hai il tempo di visitare sia la casa del vecchio
che la bottega dello scultore. Quale sceglierai?”
Ancora una volta sentì il peso della libertà schiacciargli il capo e l’elsa.
I)
Casa del
vecchio
II)
Bottega
dello scultore
Casa del vecchio
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