lunedì 14 dicembre 2020

La verità dell'argilla - parte terza



Il Kohen ed il cavaliere

“Croce”

La morte, compiaciuta, lanciò in aria la moneta scurita, facendo sì che roteasse, in modo

innaturale ed incredibile, per un tempo decisamente sproporzionato alla composizione elementare dell’oggetto. Infine, quando ritenne che il sudore che imperlava la fronte corrugata del cavaliere fosse sufficiente, la fece ricadere. Dopo averla afferrata con delicatezza la pose sul dorso della mano (se così si poteva chiamare) e la guardò.

“Croce”

Tristano rimase sospeso in uno di quegli strani attimi nei quali impressioni, pensieri, ragionamenti ed emozioni si mischiano febbricitanti, stordendo anche la più severa delle tempre. Si rese conto di non sapere quale premio comportasse la vittoria, e cosa, poi, nei fatti, fosse una vittoria. Non era, tra l’altro, nemmeno sicuro di voler vincere, qualunque fosse stato il trofeo. Una sconfitta, una sconfitta definitiva e finale, oramai, gli pareva sempre più vicina ad un conforto, piuttosto che ad un’umiliazione. Gli umiliati, d’altronde, hanno sempre una scusa per essere perdonati.

“Ti starai chiedendo cosa significhi, per te, la Croce, Cavaliere?”

Decise di non parlare.

“Risponderò io, al tuo posto: niente. Che tu avessi scelto Testa o Croce, che tu avessi vinto o perso, poco sarebbe importato”

“Immaginavo”

“Di possibilità ce n’era solo una. Ce n’è sempre solo una”

“Perciò qual era il motivo del tuo gioco?”

“Osservarti. Osservare come gli uomini reagiscono davanti alla prospettiva di essere liberi, di essere senza catene, di essere grandi. La vostra volontà mi diverte, mi affascina: in un certo senso mi stupisce”

“Narrami la mia impresa, Morte”

“Perché tanta fretta? Ogni attimo insieme a me ti separa da Me. Ti andrebbe, per esempio, di giocare a scacchi?”

“No”

“Così sia.

Un anziano Kohen ti aspetta vicino al Tempio, o a ciò che ne resta. Parlaci, lui saprà indicare la via”

E fu così che il turbine di luce e buio si fece tutto e poi niente, che gli occhi si chiusero e poi si riaprirono. Rimase solo a contemplare il suo viaggio, con in cuore la calma di chi ha accettato di dover partire e mai più tornare. Si chiese cosa ci sarebbe stato dopo, e si augurò un inferno più mite di quello che gli era stato descritto tante volte, in modi tanto diversi. Passeggiò per le strade distrutte di Gerusalemme. Il popolo stava tentando di ricostruire ciò che la guerra, ciò che la storia, gli aveva strappato. Crociati ubriachi si riscoprivano ogni notte satiri e pirati, Vandali e Visigoti. Monaci e sacerdoti tentavano di lenire il dolore dei cittadini sopravvissuti. Chi si era salvato pregava, e mattone dopo mattone, legno dopo legno, si riparava da ciò che sarebbe venuto. Un forte odore di spezie bruciate aleggiava nell’aria. Tristano respirava a pieni polmoni, sentendo le narici ardere per la cenere ed il peperoncino. Era sereno, come non lo era stato per molti anni, ormai. Vide una madre. Una donna ricca. Una greca. Vestiva di un broccato intessuto d’oro, di un pendente argenteo. Il trucco nero le esaltava gli occhi traci. Eppure, non aveva sandali ai piedi. Le unghie erano rotte e annerite, come quelle di chi ha passato la vita a scavare, a lavorare, per un tozzo di pane, per un mestolo d’acqua.  E continuava a battere le mani sulla roccia, sul cotto pregiato e frantumato, sulle travi di cedro, spostando con forza di bestia pesi immani, rompendosi ossa e legamenti, tendini e ricordi. Davanti a lei un palazzo che, una volta (qualche giorno prima), era stato grande e opulento, ricolmo di servitori fedeli o furbi, di pace, inerzia e pigrizia. Ma quel mondo era finito. La storia era andata avanti. La donna continuava a piangere e ad urlare, a chiamare un nome ed un volto, una speranza ed un legame.

“Σοφία”

“Σοφία”

“Σοφία”

Finché non le mancò anche la voce e la gola le si fece deserto.

Tristano arrivò, infine, al Tempio. O meglio, al muro. Una ciclopica costruzione di massi, testamento monumentale del maestoso edificio di cui mille anni fa faceva parte. Nelle fessure tra le pietre riposavano incastonate le preghiere e le lacrime degli ebrei, assorbite in un materiale strano, simile al papiro ed alla pergamena, eppure da essi distinto. Toccò la struttura, tastandola con leggerezza ed interesse, tentando di comprenderne il segreto, il potere.

“Fu la tua stirpe”

Udì una voce che lo avvolgeva, una mano fredda e ossuta, ma ancora vigorosa, che gli afferrava il braccio. Aveva un accento particolare, molto forte, che rendeva la sua lingua d’oil di non facile comprensione.

“Furono i Latini”

“Io non sono un Latino, sono un uomo del nord”

“Eppure parli con parole simili alle loro, vivi in terre che furono loro, preghi in una lingua che fu la loro: ti chiedo, perciò, non sei forse un Latino?” 

“Cosa vuoi, vecchio?”

“La redenzione che tu cerchi. Non è stata forse lei a mandarti da me?”

“E tu, lei la hai mai incontrata?”

“Si, ma allora scrivevo ancora su pergamena”

Passarono degli attimi di silenzio, in cui il vento scosse le vesti (e, parve al cavaliere, l’intero corpo, tanto era esile) del Kohen.

“Quale impresa mi aspetta?”

“Cose inquietanti avvengono in questa città. Fatti strani. Fatti insoliti. E non mi sto riferendo alla guerra…”

“Continua”

“Prima che entraste, quando ancora esisteva un ordine nelle mura, seppur precario, è sparito un uomo, un dotto, uno del mio popolo, più anziano e sapiente di me”

“E?”

“Lo stesso giorno, durante la notte, uno scultore, uno dei vostri, un genovese, è stato ritrovato morto, nella sua bottega. Sul pavimento era scritto, con porpora pregiata, la parola ebraica אמת, verità. La bottega era stata completamente svuotata di tutti i bozzetti in argilla sui quali si esercitava il gentile. Tutti, nessuno escluso. Si pone davanti a te un bivio. Hai solo tre giorni per redimerti, e non hai il tempo di visitare sia la casa del vecchio che la bottega dello scultore. Quale sceglierai?”

Ancora una volta sentì il peso della libertà schiacciargli il capo e l’elsa.


Vai alla parte quarta 

 

I)      Casa del vecchio

II)    Bottega dello scultore

    


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