Il Blog augura a tutti i suoi lettori un buon 25 aprile di liberazione dal nazifascismo con i racconti di Tancredi Bendicenti ed il video realizzato dai ragazzi dell'istituto.
Il dodici agosto del quarantaquattro
In quel tempo Sant’Anna era tutta verde e frutti.
Dovunque si puntasse lo sguardo, in ogni angolo dell’orizzonte a cui l’occhio
potesse arrivare, si distinguevano, nette, coltivazioni rigogliose e varie. Era
gente povera, quella di Sant’Anna, ma che, come si suole dire, sapeva campare.
Contadini con la testa dura e il cuore largo, che non si erano dovuti
accorgere, o preoccupare, del passare inesorabile dei secoli. Il tempo si
misurava in stagioni, in raccolti, in diluvi e siccità. La guerra, però, aveva portato
la fame anche lì. Le tessere, gli stenti, i sacrifici. Comunque, si tirava
avanti. I tedeschi non perdevano tempo ad avventurarsi nei sentieri ripidi e
tortuosi degli sterrati montani, preferendo luoghi più accessibili, in cui
fosse meno dispendioso esercitare quel controllo maniacale e morboso che,
allora, avevano esteso a buona parte dell’Europa. Ma la radio del nonno,
l’unica del paese, che ogni tanto veniva sintonizzata su una frequenza
particolare (quando era buio e si sentivano solo le cicale, ed al limite i
gufi), annunciava, con un marcato accento britannico, che le forze del nemico
erano agli sgoccioli, che, presto, si sarebbe tornati alla normalità. “Enrico
scordatelo questo canale, diceva il vecchio, ché se ti sente qualcuno finiamo
tutti nei guai”. Ed Enrico se lo era scordato davvero, e stava attento a non
finirci mai, neanche per sbaglio, quando ascoltava la musica dei balli
americani, e immaginava le luci di New York.
Quella mattina, come ogni mattina, la famiglia si
era riunita intorno al tavolo della cucina. Era una grande lastra di legno,
ruvida ma solida, che sembrava essere stata ricavata da un unico e gigantesco
albero. Una quercia magica, forse, nascosta nelle profondità della foresta. Un
luogo da scoprire ed esplorare, un caldo futuro ricordo a cui tornare, una
radura in cui lasciar libera la fantasia. A dieci anni, però, l'ingenuità stava
già abbandonando la testa di Enrico, lasciando spazio alla consapevolezza di
un'età che stava finendo, di una vita che stava iniziando, di un mondo di
gioco, pianto e riso che si era fatto ormai troppo stretto. La guerra, forse,
aveva condensato la sua crescita, affrettato il suo non essere più bambino. Ma
qualche mese, per trovare la quercia e vederla con gli occhi giusti, gli
rimaneva.
Tutti si erano ormai seduti. Papà Natale e mamma
Irma, incinta, e poi le piccole Luciana e Alice. Natale sperava che il quinto
figlio, quello ancora in grembo, fosse maschio. Il quinto, sì, perché Martina,
la sua Martina, se l'era portata via la meningite, ormai quattro inverni prima.
Gli mancavano quelle sue manine morbide, quella sua passione per il cacao, che
ormai non si trovava più. Strano, pensò, con Martina se ne è andato anche il
cioccolato.
A capotavola sedeva nonno Gabriele, con la barba
bianca e folta, la pelle abbronzata dal lavoro nei campi. Era lui a spezzare il
pane raffermo, e a distribuirlo alla famiglia. Ai più piccoli pezzi più grandi.
Immergevano le molliche indurite nel latte spesso e appena munto, finché non si
scioglievano. Poi, stando attenti a non sprecare nulla, ingoiavano il poco
nutrimento che la situazione garantiva loro. Fu una colazione normale, quella
del dodici agosto del quarantaquattro, come le tante che la avevano preceduta.
C'era, anzi, una certa eccitazione per l'arrivo in tavola della carne: un
maiale smagrito che pendeva dal soffitto, spillando lento il sangue in eccesso.
L'attacco dei tedeschi fu, perciò, una sorpresa. Buttarono giù la porta urlando
gutturali e rabbiosi, spingendo con le canne bollenti dei mitra. Perché
scottavano? Forse si erano esercitati nella foresta, forse avevano cacciato.
Spinsero la famiglia nella casa dei vicini. Li chiusero nella cucina, ammassati
insieme ai Pierotti. Enrico distinse, tra i tanti, il volto della Carlotta, una
ragazza di quattro anni più grande di lui, che già cominciava a farsi donna.
Gli si arrossavano le guance, all'Enrico, quando la vedeva uscire a
passeggiare. Stava sempre con gli occhi bassi mentre gli passavano davanti i
suoi lunghi capelli neri. Un omone in divisa, alto almeno due metri, spalancò
la porta. Insieme a lui entrarono altri tre soldati. Puntarono le
mitragliatrici: spararono.
Colpo dopo colpo i corpi caddero.
Uno sull'altro, senza il riguardo che i vivi hanno
per i morti. Carlotta corse e si nascose nel sottoscala ombroso che le stava
dietro. Nella confusione riuscì ad afferrare anche Enrico, e a tirarcelo. I
tedeschi non se ne accorsero. Enrico vide le sue due sorelle crollare sul pavimento,
entrambe colpite al viso. Entrambe senza più un viso.
Il nonno Gabriele, i cui polmoni erano stati
perforati almeno sei volte, morì pensando a che dannato spreco fosse stato quel
maialino. Tanto lavoro, tanta attenzione, finiti in un attimo. Come la grandine
sul raccolto. Le piante si accasciano, poi si ingialliscono. La sua famiglia
era un albero che aveva curato lungamente, i cui rami venivano ora potati senza
criterio. I frutti rischiano di non maturare più.
Papà Natale, colpito al petto, riuscì a stringere la
mano di sua moglie Irma, che la aveva adagiata sul grembo gonfio di quattro
mesi. Ti chiamerò Alfredo. Sarai una peste con i capelli arruffati. I nati a
gennaio lo sono sempre. Dormi, tesoro, dormi. Devi riposarti, mancano solo
cinque mesi: oggi vai a messa, fai un giro in paese. Il corpo di Cristo. Il
corpo di Cristo. Il corpo di Cristo. Martina, sei tu?
I tedeschi non si accorsero che erano nascosti nel
sottoscala. Avevano fretta. Una tabella di marcia da rispettare. Buttarono
della paglia nella cucina. Appiccarono il fuoco. Enrico e Carlo rimasero ad
aspettare. Sentirono la camionetta partire. Poi allontanarsi. Poi silenzio. Il
fumo gli era entrato negli occhi. Tossivano. Corsero fuori dalla casa, dalla
porta sul retro. C'era puzza di carne bruciata. Si buttarono tra le erbe alte
dell'orto. Enrico ripensò a quella favola che aveva sentito una volta, di un
palazzo e di un gigante in cima ad un' enorme pianta di fagioli. Sopra le
nuvole, dove la terra non si vede.
Dopo
qualche ora se ne andarono. Corsero a lungo, per poi fermarsi sul versante
destro della montagna, dal quale si vedeva tutto il paese. Il fumo era tanto,
in ogni borgo. Anche i campi bruciavano. La terra e le case erano nere. Non si
coltiva più nulla a Sant'Anna, è calato l'inverno.
Il Gobbo
Lo
dicevano il Gobbo; il perché saltava all’occhio. Un ragazzo stortignaccolo e
spiegazzato, con una schiena tanto curva da sembrare un foglio di carta
appallottolato e poi malamente ridisteso sulla scrivania, la cui forma non riusciva,
nonostante gli sforzi, a tornare piana. Di
tentativi di raddrizzarla, non ce n’erano stati. Un moccioso scuro, figlio di
emigranti calabresi, uno storpio buono solo per le rapine, non poteva gravare sul
dorso spezzato (ma fiero) dello stato fascista. I soldi servivano per le
munizioni, per le grandi campagne di Grecia e di Libia: sta nel tritolo l’interesse
nazionale, non nella farina, non nei medici. E così la gobba, il Gobbo, se
l’era tenuta, senza far problemi dei dolori e del poco sonno. Il suo nome,
quello vero, era Giuseppe Albano, ma non gli piaceva. Preferiva quello usato
dalla gente, dagli amici del quartiere, dalle madri con lo schiaffo facile, dai
vecchi tutto vino e carte, quello che la faceva fare nei pantaloni ai soldati
tedeschi, dritti e biondi, che per paura sua, nel Quarticciolo, non si erano
più fatti vedere. Der Bucklige. Der Bucklige. Una favola spaventosa, simile a
quelle dei Grimm, che serpeggiava nelle camerate, la sera, prima del sonno. Uno
sgorbio, un deforme, che, all’osteria, aveva ammazzato a coltellate tre ufficiali
grandi e grossi, cresciuti non col farro spaccadenti dei poveracci, ma con la
carne di maiale. Erano persino arrivati ad arrestare tutti i gobbi di Roma,
soltanto per scovarlo: non ci erano riusciti nemmeno quella volta. Poi, quando,
finalmente, se lo erano ritrovato tra le mani, a Via Tasso, dopo il
rastrellamento del Quadraro, non lo avevano riconosciuto. Belli ma scemi, aveva
pensato il Gobbo, scemi marci. Lui, invece, pure se storto, era sveglio sul
serio. E dietro quella facciata, impostagli dalla vita, di ostentata
scaltrezza, di sfrontata accattoneria, nascondeva un indomito ed
imperscrutabile senso di giustizia. I tedeschi con la legge ammazzavano,
rubavano, stupravano, torturavano. Das Recht. Lui, invece, col crimine ci
salvava la sua gente: la sfamava col furto, la proteggeva col coltello. Die Sittlichkeit.
E lo aveva immaginato più volte un mondo nuovo, un mondo giusto, un mondo di
uguali, dopo la guerra. Un mondo in cui un bambino con la schiena spezzata venisse
sempre curato, che fosse figlio di un avvocato, o di due poveri emigranti
calabresi. Un mondo decente. Perciò combatteva. Per il suo quartiere, per il
suo popolo, per il suo futuro, per la sua libertà. E per questo, perché aveva
il cuore tanto largo che gli spuntava dalla schiena, lo dicevano il Gobbo.
Tancredi Bendicenti
Per il video dei ragazzi del Collegio San Giuseppe - Istituto De Merode clicca qui
Per rileggere il terzo racconto di Tancredi Bendicenti "Albe grigie" clicca qui
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