domenica 25 aprile 2021

25 aprile 2021 - Festa della liberazione dal nazifascismo



 Il Blog augura a tutti i suoi lettori un buon 25 aprile di liberazione dal nazifascismo con i racconti di Tancredi Bendicenti ed il video realizzato dai ragazzi dell'istituto. 

Il dodici agosto del quarantaquattro

In quel tempo Sant’Anna era tutta verde e frutti. Dovunque si puntasse lo sguardo, in ogni angolo dell’orizzonte a cui l’occhio potesse arrivare, si distinguevano, nette, coltivazioni rigogliose e varie. Era gente povera, quella di Sant’Anna, ma che, come si suole dire, sapeva campare. Contadini con la testa dura e il cuore largo, che non si erano dovuti accorgere, o preoccupare, del passare inesorabile dei secoli. Il tempo si misurava in stagioni, in raccolti, in diluvi e siccità. La guerra, però, aveva portato la fame anche lì. Le tessere, gli stenti, i sacrifici. Comunque, si tirava avanti. I tedeschi non perdevano tempo ad avventurarsi nei sentieri ripidi e tortuosi degli sterrati montani, preferendo luoghi più accessibili, in cui fosse meno dispendioso esercitare quel controllo maniacale e morboso che, allora, avevano esteso a buona parte dell’Europa. Ma la radio del nonno, l’unica del paese, che ogni tanto veniva sintonizzata su una frequenza particolare (quando era buio e si sentivano solo le cicale, ed al limite i gufi), annunciava, con un marcato accento britannico, che le forze del nemico erano agli sgoccioli, che, presto, si sarebbe tornati alla normalità. “Enrico scordatelo questo canale, diceva il vecchio, ché se ti sente qualcuno finiamo tutti nei guai”. Ed Enrico se lo era scordato davvero, e stava attento a non finirci mai, neanche per sbaglio, quando ascoltava la musica dei balli americani, e immaginava le luci di New York.

Quella mattina, come ogni mattina, la famiglia si era riunita intorno al tavolo della cucina. Era una grande lastra di legno, ruvida ma solida, che sembrava essere stata ricavata da un unico e gigantesco albero. Una quercia magica, forse, nascosta nelle profondità della foresta. Un luogo da scoprire ed esplorare, un caldo futuro ricordo a cui tornare, una radura in cui lasciar libera la fantasia. A dieci anni, però, l'ingenuità stava già abbandonando la testa di Enrico, lasciando spazio alla consapevolezza di un'età che stava finendo, di una vita che stava iniziando, di un mondo di gioco, pianto e riso che si era fatto ormai troppo stretto. La guerra, forse, aveva condensato la sua crescita, affrettato il suo non essere più bambino. Ma qualche mese, per trovare la quercia e vederla con gli occhi giusti, gli rimaneva.

Tutti si erano ormai seduti. Papà Natale e mamma Irma, incinta, e poi le piccole Luciana e Alice. Natale sperava che il quinto figlio, quello ancora in grembo, fosse maschio. Il quinto, sì, perché Martina, la sua Martina, se l'era portata via la meningite, ormai quattro inverni prima. Gli mancavano quelle sue manine morbide, quella sua passione per il cacao, che ormai non si trovava più. Strano, pensò, con Martina se ne è andato anche il cioccolato.      

A capotavola sedeva nonno Gabriele, con la barba bianca e folta, la pelle abbronzata dal lavoro nei campi. Era lui a spezzare il pane raffermo, e a distribuirlo alla famiglia. Ai più piccoli pezzi più grandi. Immergevano le molliche indurite nel latte spesso e appena munto, finché non si scioglievano. Poi, stando attenti a non sprecare nulla, ingoiavano il poco nutrimento che la situazione garantiva loro. Fu una colazione normale, quella del dodici agosto del quarantaquattro, come le tante che la avevano preceduta. C'era, anzi, una certa eccitazione per l'arrivo in tavola della carne: un maiale smagrito che pendeva dal soffitto, spillando lento il sangue in eccesso. L'attacco dei tedeschi fu, perciò, una sorpresa. Buttarono giù la porta urlando gutturali e rabbiosi, spingendo con le canne bollenti dei mitra. Perché scottavano? Forse si erano esercitati nella foresta, forse avevano cacciato. Spinsero la famiglia nella casa dei vicini. Li chiusero nella cucina, ammassati insieme ai Pierotti. Enrico distinse, tra i tanti, il volto della Carlotta, una ragazza di quattro anni più grande di lui, che già cominciava a farsi donna. Gli si arrossavano le guance, all'Enrico, quando la vedeva uscire a passeggiare. Stava sempre con gli occhi bassi mentre gli passavano davanti i suoi lunghi capelli neri. Un omone in divisa, alto almeno due metri, spalancò la porta. Insieme a lui entrarono altri tre soldati. Puntarono le mitragliatrici: spararono.

Colpo dopo colpo i corpi caddero.

Uno sull'altro, senza il riguardo che i vivi hanno per i morti. Carlotta corse e si nascose nel sottoscala ombroso che le stava dietro. Nella confusione riuscì ad afferrare anche Enrico, e a tirarcelo. I tedeschi non se ne accorsero. Enrico vide le sue due sorelle crollare sul pavimento, entrambe colpite al viso. Entrambe senza più un viso.

Il nonno Gabriele, i cui polmoni erano stati perforati almeno sei volte, morì pensando a che dannato spreco fosse stato quel maialino. Tanto lavoro, tanta attenzione, finiti in un attimo. Come la grandine sul raccolto. Le piante si accasciano, poi si ingialliscono. La sua famiglia era un albero che aveva curato lungamente, i cui rami venivano ora potati senza criterio. I frutti rischiano di non maturare più.

Papà Natale, colpito al petto, riuscì a stringere la mano di sua moglie Irma, che la aveva adagiata sul grembo gonfio di quattro mesi. Ti chiamerò Alfredo. Sarai una peste con i capelli arruffati. I nati a gennaio lo sono sempre. Dormi, tesoro, dormi. Devi riposarti, mancano solo cinque mesi: oggi vai a messa, fai un giro in paese. Il corpo di Cristo. Il corpo di Cristo. Il corpo di Cristo. Martina, sei tu?

I tedeschi non si accorsero che erano nascosti nel sottoscala. Avevano fretta. Una tabella di marcia da rispettare. Buttarono della paglia nella cucina. Appiccarono il fuoco. Enrico e Carlo rimasero ad aspettare. Sentirono la camionetta partire. Poi allontanarsi. Poi silenzio. Il fumo gli era entrato negli occhi. Tossivano. Corsero fuori dalla casa, dalla porta sul retro. C'era puzza di carne bruciata. Si buttarono tra le erbe alte dell'orto. Enrico ripensò a quella favola che aveva sentito una volta, di un palazzo e di un gigante in cima ad un' enorme pianta di fagioli. Sopra le nuvole, dove la terra non si vede.

Dopo qualche ora se ne andarono. Corsero a lungo, per poi fermarsi sul versante destro della montagna, dal quale si vedeva tutto il paese. Il fumo era tanto, in ogni borgo. Anche i campi bruciavano. La terra e le case erano nere. Non si coltiva più nulla a Sant'Anna, è calato l'inverno.

Il Gobbo

Lo dicevano il Gobbo; il perché saltava all’occhio. Un ragazzo stortignaccolo e spiegazzato, con una schiena tanto curva da sembrare un foglio di carta appallottolato e poi malamente ridisteso sulla scrivania, la cui forma non riusciva, nonostante gli sforzi, a tornare piana.  Di tentativi di raddrizzarla, non ce n’erano stati. Un moccioso scuro, figlio di emigranti calabresi, uno storpio buono solo per le rapine, non poteva gravare sul dorso spezzato (ma fiero) dello stato fascista. I soldi servivano per le munizioni, per le grandi campagne di Grecia e di Libia: sta nel tritolo l’interesse nazionale, non nella farina, non nei medici. E così la gobba, il Gobbo, se l’era tenuta, senza far problemi dei dolori e del poco sonno. Il suo nome, quello vero, era Giuseppe Albano, ma non gli piaceva. Preferiva quello usato dalla gente, dagli amici del quartiere, dalle madri con lo schiaffo facile, dai vecchi tutto vino e carte, quello che la faceva fare nei pantaloni ai soldati tedeschi, dritti e biondi, che per paura sua, nel Quarticciolo, non si erano più fatti vedere. Der Bucklige. Der Bucklige. Una favola spaventosa, simile a quelle dei Grimm, che serpeggiava nelle camerate, la sera, prima del sonno. Uno sgorbio, un deforme, che, all’osteria, aveva ammazzato a coltellate tre ufficiali grandi e grossi, cresciuti non col farro spaccadenti dei poveracci, ma con la carne di maiale. Erano persino arrivati ad arrestare tutti i gobbi di Roma, soltanto per scovarlo: non ci erano riusciti nemmeno quella volta. Poi, quando, finalmente, se lo erano ritrovato tra le mani, a Via Tasso, dopo il rastrellamento del Quadraro, non lo avevano riconosciuto. Belli ma scemi, aveva pensato il Gobbo, scemi marci. Lui, invece, pure se storto, era sveglio sul serio. E dietro quella facciata, impostagli dalla vita, di ostentata scaltrezza, di sfrontata accattoneria, nascondeva un indomito ed imperscrutabile senso di giustizia. I tedeschi con la legge ammazzavano, rubavano, stupravano, torturavano. Das Recht. Lui, invece, col crimine ci salvava la sua gente: la sfamava col furto, la proteggeva col coltello. Die Sittlichkeit. E lo aveva immaginato più volte un mondo nuovo, un mondo giusto, un mondo di uguali, dopo la guerra. Un mondo in cui un bambino con la schiena spezzata venisse sempre curato, che fosse figlio di un avvocato, o di due poveri emigranti calabresi. Un mondo decente. Perciò combatteva. Per il suo quartiere, per il suo popolo, per il suo futuro, per la sua libertà. E per questo, perché aveva il cuore tanto largo che gli spuntava dalla schiena, lo dicevano il Gobbo.

Tancredi Bendicenti

Per il video dei ragazzi del Collegio San Giuseppe - Istituto De Merode clicca qui

Per rileggere il terzo racconto di Tancredi Bendicenti "Albe grigie" clicca qui

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