Erano le 7 del mattino. Il lamento di Emma riecheggiava nel silenzio della sua stanza mentre spegneva la sveglia. Per chiunque sarebbe stato un giorno come gli altri, ma per Emma no: quella era una giornata speciale.
Distesa nel letto, i pensieri e le preoccupazioni si accavallavano nella sua mente, creando un vortice di caos e confusione. Prima che potesse cambiare idea, la seconda sveglia iniziò a suonare, interrompendo la tempesta di idee che cercavano di dissuaderla. Emma si stiracchiò e, con riluttanza, si alzò. Il freddo della stanza l'avvolse, facendola rabbrividire. Avrebbe voluto tornare sotto le coperte, ma ormai era sveglia, e quel giorno c'erano decisioni importanti da prendere.Attraversando la stanza per dirigersi verso il bagno, schivava pile di vestiti, libri e fogli sparsi come in un campo di battaglia. Davanti allo specchio, mentre si lavava i denti, scrutava il suo riflesso: i punti neri sul naso, le labbra troppo sottili, lo sguardo stanco e spento dietro gli occhiali, i capelli non abbastanza biondi, i denti non perfettamente bianchi. Ogni dettaglio sembrava un difetto.
Una volta finito, decise di fare qualcosa per il suo aspetto. Trovò le lenti a contatto, sperando di poter vivere il momento da film adolescenziale in cui togliersi gli occhiali avrebbe rivelato una bellezza nascosta. Mentre pensava a queste cose, le lenti erano già al loro posto. Si osservò ancora, troppo a lungo, e concluse che il trucco era essenziale. No, vitale. Ma le regole della giornata glielo vietavano.
Scelse un abbigliamento semplice ma curato, abbastanza neutro da non sembrare trasandato, e uscì di casa. Davanti allo specchio dell’ingresso, si concesse un ultimo sguardo carico di insicurezza. Poi chiuse la porta con decisione, esitando solo un istante.
Il suo palazzo era anonimo, con corridoi identici e appartamenti uguali a quelli di tutti gli altri edifici del quartiere. Anche i treni erano sempre gli stessi. Sul binario 3, Emma salì a bordo, accompagnata dalla sua playlist. Ma la musica non bastava a placare l'ansia, che cresceva a ogni fermata.
“Stazione Centrale,” annunciò una voce metallica. Emma scese, mancavano undici minuti alla sua destinazione. Le parve che la città fosse in un curioso equilibrio: frenetica e silenziosa al tempo stesso. Ogni passo verso il grande grattacielo amplificava il rumore dei suoi pensieri, che rimbalzavano incessantemente nella sua testa.
Davanti alla porta di vetro, Emma si fermò per la quarta volta quella mattina, davanti alla porta di vetro del grande grattacielo. Un colpetto sulla spalla la fece sobbalzare. Si girò e vide un ragazzo. Il suo volto era singolare, lontano dagli standard patinati delle riviste, ma affascinante. I lineamenti erano asimmetrici, con un naso importante che sembrava raccontare una storia. Le sopracciglia, folte e disordinate, incorniciavano occhi di un’intensità inaspettata, quasi ipnotica. La sua corporatura era esile, ma non fragile; c’era in lui una grazia sottile, come quella di un danzatore. Anche la sua altezza, che avrebbe potuto sembrare sproporzionata, accentuava l’unicità del suo aspetto.
“Non farlo,” sussurrò, avvicinandosi al suo orecchio. La voce era calma, come un’onda che si infrange dolcemente, ma lasciava una traccia profonda. Emma continuava a fissarlo, colpita da quell’insieme di dettagli che lo rendevano diverso, ma incredibilmente autentico.
“Sei qui per l’operazione, vero?” chiese lui. La domanda la scosse.
“Sì… è il mio turno. Devo solo presentarmi al desk,” rispose Emma, incerta. Il ragazzo restò in silenzio. Lei si sentì in dovere di giustificarsi.
“Arriva questo momento per tutti. Tutti vogliono diventare perfetti. Essere come quelli delle pubblicità o dei cartelloni. Ormai lo sono tutti. Perché non dovrei volerlo anch’io?”
Emma parlava quasi più a sé stessa che a lui. Ogni passo, da casa al grande grattacielo della “Babel,” era stato accompagnato dal frastuono dei suoi pensieri. Ma il ragazzo non replicò. Rimase immobile, annuendo leggermente, poi si voltò come per andarsene. Emma lo guardò ancora. Lasciò andare un sospiro.
“Ti sei fermata a pensare,” disse lui all’improvviso, voltandosi di nuovo verso di lei. Le sue parole colpirono Emma come uno schiaffo.
“La maggior parte delle persone non lo fa. Entra senza guardarsi indietro,” continuò il ragazzo, avvicinandosi. “Ma tu no. Non puoi ignorare che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo.”
Emma rimase in silenzio, incapace di rispondere. Sapeva che aveva ragione. Quelle parole erano ciò che aveva cercato di soffocare per tutta la mattina.
“Vieni con me,” disse lui. “Posticipa l’appuntamento a domani. Passa questa giornata con me. Se domani vorrai ancora fare l’operazione, nessuno te lo impedirà. Ma prima, lasciati il tempo di pensare davvero. Lo vedo nei tuoi occhi: stai cercando di non ascoltare quella voce dentro di te. Credimi, lo so. Ci sono passato anche io.”
Emma lo fissò. Poi guardò la sua mano, tesa davanti a lei. Una parte di sé voleva girarsi e entrare, ma l’altra, quella che da ore la tormentava, era ormai troppo forte. Senza quasi accorgersene, prese la mano del ragazzo, che le sorrise e, correndo, la trascinò via.
Francesca Lorenza Leonardi
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