Caro diario,
oggi, avevo proprio voglia di scriverti, sai? Tutti hanno bisogno di qualcuno a cui raccontare la verità senza essere giudicati, senza avere paura di quanto crudele quel dannato giudizio possa essere; raccontare solo così, lentamente, senza neanche aspettarsi una risposta. Sì, perché quasi sempre la risposta me la sussurra il mio buonsenso o, peggio, la mia natura, solo che io non ho il coraggio di ascoltarla, finché non l’ho detta tutta, la verità, che continuo a negare persino a me stesso, perché troppo brutta o troppo evidente.
Sì sì, lo so, tutti dicono che meglio dirsela, quella verità, che tanto prima o poi esce e ti fa soffrire ancora di più.
Cazzate.
Avrei preferito non dirmele certe verità; avrei preferito non sapere che per i miei sono solo un fallimento, che per gli altri sono solo un ragazzino, che per i miei amici sono solo uno del gruppo, che per le ragazze sono solo uno fregno. Avrei preferito non sapere quanto male fa sentirsi dei perfetti coglioni davanti a quel quattro al compito e fare finta che non me ne frega un accidente. Avrei preferito non provare il terrore di rimanere solo, intrappolato e in un vicolo cieco, nessuno a difendermi, tra i miei dubbi e le mie insicurezze, così, solo, solo e al buio, senza possibilità, essendo troppo fortunato per poter dire di essere stato sfortunato e poter dare tutta la colpa dei miei fallimenti al mio stato sociale, ma, nello stesso tempo, sentendomi troppo perso in quel mare di amicizie false, di baci dati senza motivo, di parole dette senza anima.
Ieri ero lì, che la guardavo, lei, la mia ex ragazza, ex di due giorni, s’intende, ex senza un motivo preciso, senza una ragione abbastanza convincente, solo cosi, ex. Rideva con le amiche e io la guardavo, impalato. Non credere che io stia per dire una di quelle cazzate da film: “Ti accorgi di amarla, solo quando la lasci andare” e roba simile; no, niente del genere. Non la amo, quella. In realtà, me la sono fatta talmente tante volte che neanche mi intriga più fisicamente, tanto di lei ho visto tutto, la conosco a memoria, come casa mia, difetti e imperfezioni, con i soliti mobili di famiglia e i quadri dall’aria tetra. Non so neanche perché la guardavo, ora che ci penso. Forse mi aspettavo qualcosa di più? Forse mi aspettavo che stesse male per me, che piangesse o che smettesse di ridere in quel modo un po’ da modella con quelle cesse leccapiedi delle sue amiche o che la piantasse di fare la scema con ogni maschio in giro per la scuola… Forse volevo solo, per una volta, lasciare un segno. Forse volevo solo che, per un attimo, per un momento, qualcuno si ricordasse che io non sono solo un fallimento, un ragazzino, uno del gruppo o un fregno. Volevo che qualcuno vedesse me. Volevo che qualcuno amasse me.
Forse mi aspettavo che lei fosse diversa. Me lo aspetto sempre, ci spero, anche se ho imparato che la speranza serve solo a creare ancora più emozioni da nascondere. E io di cose da nascondere ne ho fin troppe, ho tutto me stesso da proteggere dagli sguardi degli altri, che riflettono nei loro occhi di giudici la verità: sono solo me.
Lei si girava di tanto in tanto, non per qualche motivo preciso, ma perché c’eravamo appena lasciati e doveva approfittarne per conquistarsi un po’ di popolarità, guardandomi male, lamentandosi con le sue BFF di quanto fossi stronzo e dicendo a gran voce, in modo che tutti potessero sentirla, ovviamente: “Ma come si permette di guardarmi, quello stronzo!?”. Sì, come se poi le desse fastidio che io la guardassi. I miei amici, quelli soliti, ridevano per solidarietà, scuotendo un po’ la testa e agitando il loro ciuffo al sole del cortile, dandomi di tanto in tanto qualche pacca sulla spalla ed esclamando “Bona è bona, eh, però che carattere de merda!”. Io avevo cominciato a ridere insieme a loro, non mi era proprio passato per la testa di sembrare il coglione di turno che un po’ ci aveva creduto o,peggio, di darle la soddisfazione di farsi dire dalle amiche che secondo loro un po’ mi mancava. Non che non lo faranno, sia chiaro, ma almeno così tutti le prenderanno come cavolate dette da delle sfigate invidiose e nessuno mi romperà le palle.
Quanto le invidio quelle sfigate. Giudicano senza sentirsi giudicate. O forse li sentono i giudizi degli altri, chi lo sa, ma non se ne fregano, perché la loro natura di sfigate non gli impone di pensare, di sentire, di vivere. Loro sfiorano la vita con le loro piccole mani dalle unghie smaltate, camminano sul bordo del baratro con le loro scarpette firmate, senza mai caderci dentro, restandone sempre fuori, cogliendo quell’attimo di popolarità ora con un pettegolezzo, ora con una storia finita male, ora con una scopata, accontentandosi di ogni singolo momento della loro non-vita.
Io, invece, nel baratro ci sono nato, non caduto, e ora ci vivo dentro, anche se non mi ci sono ancora abituato, perché impossibile: non è come casa mia o la mia ex ragazza, sempre uguali, immutabili, arredate sempre nello stesso modo, no, il baratro cambia di continuo e, anche se i cambiamenti dipendono da me, io non riesco a starci dietro, non riesco a rimanere fermo in questo turbinio di voci, parole, sentimenti, emozioni, vite.
Vado. La mia ricerca di riprovare l’Emozione non è ancora terminata e stasera esco con quegli amici, per sbavare su qualche altra ragazza, mentre balla, reprimendo la solita speranza di ritrovare quella giusta, quel punto fermo capace di mostrarmi la chiave per capire la Vita, capace di insegnarmi come si fa a guardare un giudice negli occhi e a gridare il mio nome, capace di darmi ciò di cui ho più bisogno, ciò che cerco da sempre: la speranza di poter sperare.
H.C.